domenica 10 marzo 2024

Santa Maria della Ferraria. La testimonianza del suo splendore attraverso l'edicola di Malgerio Sorello

 







   La diffusione del monachesimo cistercense nella nostra penisola seguì dinamiche e tempi di sviluppo differenti fra le aree settentrionali e quelle meridionali. A tale disparità concorsero in parte le eterogenee realtà socio-politiche delle regioni peninsulari interessate dal fenomeno. Se lo sviluppo delle abbazie cistercensi al nord dovette inevitabilmente relazionarsi con i poteri locali, per il meridione il confronto doveva avvenire principalmente con i poteri centrali, rappresentati da sovrani regnanti e imperatore. Nel sud Italia i tre cenobi delle Tre Fontane (Roma), Casamari (Veroli) e Fossanova (Priverno) arrivarono a dirigere, in qualità di case-madri, un numero tutt'altro che esiguo di abbazie e competenze sparse nei territori  meridionali: realtà che, sebbene satelliti, seppero a volte ritagliarsi, seppur per brevi lassi di tempo, ruoli piuttosto rilevanti. Testimonianza di tali dinamismi si possono scoprire nella storia dell'abbazia di Santa Maria della Ferraria, nel territorio di Vairano Patenora. 


Il sentiero che conduce all'abbazia


Edificata a partire dall'anno 1171 ai piedi della collina detta "della Verdesca", su di un'area donata dal conte Riccardo di Sangro all'abbazia di Fossanova, Santa Maria della Ferraria vide consacrata la sua chiesa il 23 novembre 1179, sotto la guida del priore Pietro. Probabilmente i lavori del complesso monastico si protrassero oltre tale data, andando ad ampliare negli anni il progetto originario, che la Chronica dell'abbazia narra realizzato dal monaco di Fossanova, Giovanni de Ferraris.

Riconosciutale la dignità di abbazia già nel 1184, Santa Maria della Ferraria s'inserì nel contesto locale come una florida realtà, guadagnando la stima  e la considerazione comune grazie all'accorta politica di alcuni dei suoi abati, abili nell' intessere relazioni fruttuose con la corte normanna ed il papato: relazioni che garantirono al cenobio l'estensione di possedimenti e privilegi paragonabili a quelli goduti da monasteri di maggior rilevanza. Gli anni di dominio normanno furono anni in cui il monastero si vide confermati privilegi, donazioni e potenti protezioni già precedentemente accordate. 

Nell'anno 1201 venne eletto a guida del cenobio l'abate Taddeo, uomo rivelatosi esperto politico e dotato di indiscusse doti diplomatiche. La sua abilità lo condusse a svolgere un ruolo considerevole nei rapporti con l'imperatore Federico II di Svevia, il papato ed il capitolo cistercense. Le visite che Federico II effettuò all'abbazia della Ferraria - l'11 febbraio 1223, in occasione del viaggio intrapreso per incontrare il pontefice Onorio III, e nel 1129, anno in cui, in pieno conflitto con Gregorio IX, si trattenne nel monastero per ben tre giorni- testimoniano il tipo di legame che univa il sovrano al cenobio ed al suo abate. Tuttavia con il trascorre del tempo, passato lo splendore iniziale, l'abbazia iniziò un lento quanto inesorabile declino che la portò alla perdita di quel ruolo ragguardevole rivestito nei primi decenni di esistenza: la condotta discutibile assunta progressivamente dai suoi monaci, gli attriti con la corte angioina e il calo del suo peso politico determinarono la sua esclusione dagli scenari storici più dinamici. 

Trasformata in commenda nell'anno 1461, Santa Maria della Ferraria veniva non solo a perdere definitivamente la propria autonomia, ma poté assistere all'ineluttabile sgretolarsi di una realtà che non avrebbe conosciuto più alcuna ripresa. Se nel 1793 lo stato di commenda terminava a favore del passaggio al Regio Patronato, 14 anni dopo, nel 1807, la vita dell'abbazia giungeva al suo termine con l'abolizione degli istituti monastici, disposta dal governo francese, e che decretò la trasformazione del complesso edilizio religioso, convertendolo in masseria.

Oggi restano scarse testimonianze di quel luogo che ospitò imperatori e dignitari; i ruderi dell'antico complesso monastico, avvolti dalla vegetazione, poco si prestano alla lettura di chi vorrebbe scorgervi la storia passata. Perduto nella quasi totalità l'edificio chiesastico, sopravvive, in stato precario, una piccola cappella laterale, sita al termine di un corridoio gradonato: cappella che nella sua esiguità conserva tuttavia un tesoro inaspettato per il visitatore.




 Al suo interno infatti troviamo un'edicola scavata nella muratura e decorata con un affresco realizzato su due registri sovrapposti. Nella lunetta superiore trova spazio, su campo azzurro, l'immagine della Vergine in veste azzurra e manto rosso e con in braccio il Bambino benedicente. Li circondano i santi Pietro e Paolo, recanti i tradizionali attributi delle chiavi e del libro, contornati da figure di santi, estremamente lacunose, nell'intradosso dell'arco. In particolare, la figura dipinta nell'intradosso, alla sinistra di S. Pietro, la cui identificazione risulta ardua a causa della caduta dell'intonaco nell'area corrispondente al volto, completa la scena contestualizzandola con il gesto di presentare l'anima ignuda del defunto ricordato nel registro inferiore.









La scena della lunetta è separata dall'affresco sottostante da un un'iscrizione in lettere gotiche di colore bianco su banda rossa: il testo ricorda Malgerio Sorel, l'uomo di cui si rappresentano i funerali nel registro inferiore dell'affresco (Hec e(st)mei Malgerii memoria hic traditi vermibus et cineri relictis po(m)ppis secu(li) hoc templum iussi construi Chr(ist)e largitor p(re)mii tue matri virg(i)ni qua(m) mici erede statui cum hoc conve(n)tu nobilis ferrarie cenobii cui(Us) munim(en)volui q(u)(i) s[ib](i) totu(m) p(rae)bui. Mag[n](a)tis nom(en) renui cu(m) veste spero monaci(i) i(n) tuam domu(m) ingredi spes una mu(n)di p(er)diti). Sebbene parzialmente ed irrimediabilmente danneggiata per il distacco di parte dell'intonaco, la scena ripropone il tradizionale momento delle esequie di un devoto in veste candida, steso su di un catafalco e circondato da due schiere di monaci. Fra questi ultimi, alcuni studiosi individuano la figura di Pietro Angelerio da Morrone eletto, nel 1294, al soglio di Pietro con il nome di Celestino V e ricordato da Dante Alighieri come il papa del "gran rifiuto". Ma chi era stato  l'uomo la cui anima nell'iscrizione veniva affidata a Cristo e alla Vergine e la  memoria all'affresco? Malgerio Sorel, conte di Torcino e Sant'Agata, feudatario normanno potente e facoltoso, signore di vasti possedimenti terrieri in Terra di Lavoro, fu falconiere dell'imperatore Federico II di Svevia. Caduto in disgrazia presso il sovrano dopo aver partecipato alla congiura antimperiale di Capaccio (1245-1246), Sorel scelse di terminare i suoi giorni indossando la veste cistercense,  fra le mura  dell'abbazia della Ferraria. Albasia, vedova di Sorel, dispose la donazione di Torcino e Sant'Agata  a favore del cenobio e, sempre per suo volere, qui venne realizzata la cappella in memoria del consorte.






Cercare di immaginare l'abbazia nel suo periodo di splendore non è certo cosa facile, non solo per le numerose trasformazioni d'uso subite nel corso dei secoli, ma anche in ragione dello stato di abbandono in cui versano da lungo tempo i ruderi dell'antico complesso. Aggirandosi tra le rovine di Santa Maria della Ferraria si ha la possibilità di scoprire ancora qualche labile traccia che ha sfidato l'incuria del tempo e l'invasione della vegetazione, restituendo al viaggiatore tenui testimonianze: sparute tracce di affreschi spuntano su lunette di dimenticate cappelle, alcune leggibili ma altre ormai troppo indecifrabili per restituire l'antico tema narrativo; decori architettonici che sfidano i secoli, ormai fragili nella loro emarginazione dalla storia, in attesa di un riscatto di quella che dovrebbe essere una più che giusta attenzione da tributare ad uno dei monumenti storici più significativi e meno noti del casertano. 






INFORMAZIONI

L'Abbazia della Ferraria si trova nel comune di Vairano Patenora in provincia di Caserta. E' raggiungibile percorrendo la SP96- Vairano Patenora (CE).


BIBLIOGRAFIA

CAIAZZA D. "Terra di Lavoro, Terra di Santi. Eremiti e Monachesimo nell'Alta Terra di Lavoro da Benedetto a Celestino V." Raviscanina, 1 luglio 2005.

DI SANO F., BARALDI P., BENSI P. "I dipinti duecenteschi dell'edicola funeraria di Malgerio Sorello nella Abbazia di Santa Maria di Ferraria (Caserta): vicende storiche, tecniche esecutive, conservazione in "Progetto Restauro. Trimestrale per la tutela dei Beni Culturali", anno 11, 39, 2006.

HOUBEN H., VETERE B. "I Cistercensi nel Mezzogiorno medievale", 1994.

LOFFREDO M. "I Cistercensi nel Mezzogiorno medievale (Secoli XII- XV)", Novara, 2022.

NUZZO M. "La memoria di Malgerio Sorello nell'abbazia di Santa Maria della Ferraria. Indagini preliminari su un monumento inedito del Duecento in Campania, in "Arte Medievale", serie II, VII, 2, 1994, pp.77-96.

SCANDONE F. "S. Maria di Ferraria" in “Rivista di Scienze e Lettere”, IX (1908/09).

VITAGLIANO G. "L'abbazia della Ferrara a Vairano Patenora. Alcune considerazioni preliminari sull'evoluzione della chiesa" in "Nella Terra di Fina. Scritti in memoria di Vittorio Ragucci." a cura di A. Panarello  e G. Angelone.  

venerdì 29 aprile 2022

Il Museo dell'Abbazia di Grottaferrata

 





   Tra le varie componenti distintive che caratterizzarono la penisola italiana durante il medioevo, i borghi ed i monasteri rappresentano entità peculiari fortemente qualificanti, sia dal punto di vista economico ed amministrativo, che sociale e culturale. Una grande attenzione è sempre stata dedicata allo sviluppo delle prime comunità monastiche che si insediarono nei diversi territori e che col tempo seppero contraddistinguersi nella gestione territoriale e nello sfruttamento avveduto delle sue risorse. 

Il monachesimo nell'area dei Castelli Romani riporta, inevitabilmente, alla presenza dei monaci greci basiliani, insediati sul territorio di Grottaferrata. Sviluppatasi intorno alla figura carismatica di San Nilo di Rossano, l'Abbazia di Santa Maria sorge su di un territorio di remoti insediamenti di ambito civile e militare. Territorio ricco di sfarzose ville, appartenenti a facoltosi patrizi romani, l'area, compresa tra la via Appia e la via Latina, rappresentava un percorso fondamentale e strategico verso Roma. 

Fra i resti di queste ville, nel 1004 giungeva un monaco calabrese di nome Nilo, allontanatosi dalla sua terra per sfuggire alle violenze delle incursioni saracene. La sua non fu la storia di un uomo comune, quanto piuttosto quella di un individuo dal forte carisma ed assennatezza. Stimato dai potenti locali, ed in particolare da quel Gregorio conte di Tuscolo, ricordato dalle cronache per l'impetuosità del suo carattere, Nilo ricevette in dono da quest'ultimo l'antica villa romana su cui si era insediato con i suoi monaci giungendo a Grottaferrata. Già luogo frequentato per pratiche cultuali cristiane, la Crypta ferrata, primitivo nucleo intorno al quale andrà sviluppandosi il successivo complesso abbaziale, rappresenta il cuore primigenio dell'insediamento nilano a Grottaferrata, sia in termini materiali, ma ancor più spirituali. La crescita della comunità monastica nilana fu il segno tangibile di quell'espansione e del peso sociale e politico guadagnato dall'abbazia nel corso di decenni. Basta tener presente che la consacrazione della chiesa abbaziale, intitolata alla Theotokonos, venne officiata da papa Giovanni XIX già nell'anno 1024, mentre, circa un secolo dopo tale data, papa Callisto II, promulgando un Privilegium, poneva di fatto il cenobio sotto la giurisdizione della Chiesa di Roma. 

La fortuna non arrise sempre ai monaci del monastero. La vicinanza a Roma faceva di Grottaferrata  un inevitabile avamposto strategico per puntare verso la città eterna. Le tensioni fra i potenti locali, le violente scorribande normanne (1163), l'occupazione dell'abbazia da parte delle truppe di Federico II (1241-42) e quella della soldataglia guidata da Ladislao di Durazzo (1411-14) dimostrano quanto vulnerabile fosse il cenobio. Questi episodi contribuirono a caratterizzare l'aspetto architettonico dell'abbazia, che tra il 1485 ed il 1491, assunse le forme di una cittadella fortificata, per volontà del cardinale commendatario Giuliano della Rovere. Mura di cinta e torrette cilindriche racchiusero non solo la chiesa di Santa Maria ma anche il palazzo del Commendatario, residenza voluta dallo stesso Giuliano.






Nelle sale del palazzo del Commendatario trovano oggi spazio sia la biblioteca statale di Grottaferrata, custode di manoscritti ed incunaboli antichi, sia l'area  museale. La raccolta qui conservata nasce dalla lunga attività di recupero di beni archeologici reperiti in situ e perpetrata dai monaci nel corso degli anni. Un primo allestimento espositivo risale al 1873 ed aveva lo scopo di promuovere il patrimonio artistico criptense. Durante i decenni, il museo ha vissuto alterni periodi, in cui fasi di rinascita si alternavano a periodi di incertezza.

L'esposizione museale di Grottaferrata si compone di oggetti che coprono un arco temporale compreso tra l'arte classica romana e greca, fino alle testimonianze delle commissioni artistiche promosse dai cardinali commendatari, che si susseguirono  a guida dell'abbazia fino all'anno 1824.

Le sale dedicate all'arte classica sono il frutto del recupero e della conservazione di quei reperti archeologici che i monaci basiliani rinvennero nel corso dei secoli. Prevalgono fra questi le stele funerarie ed i sarcofagi. Spiccano per importanza e pregio reperti quali la "Stele funeraria con giovane intento nella lettura" e la "Stele con trasporto funebre del guerriero". Il primo bassorilievo, realizzato in marmo bianco di Paros, rappresenta un giovane assiso di profilo, intento nella lettura. Riconosciuta come opera di ambito greco, incerte sono sia la sua datazione che la sua provenienza, mentre incontestabile appare la sua qualità artistica ed il patos narrativo della scena. Forte impatto emotivo è trasmesso dalla seconda stele funeraria con il trasporto del defunto. Stando alle cronache del tempo venne rinvenuta nei territori abbaziali durante il XVII secolo. La scena descrive il trasporto di un defunto fra diversi personaggi. Dibattuta è l'identificazione del tema: alcuni studiosi lo ricondurrebbero al tema epico, riconoscendo nel defunto Ettore oppure Achille, mentre altri vedono nel trapassato l'immagine dell'argonauta Meleagro, principe di Calidone. Contrastanti anche le datazioni dell'opera, collocata da alcuni al I sec. d.C. piuttosto che al II.












Diventati simboli delle collezioni museali dell'abbazia, le due opere spiccano ma non fanno passare in secondo piano altri reperti di interessante fattura. I reperti funerari qui raccolti alternano temi celebrativi ad argomenti mitologici, come nel caso delle lastre di sarcofago con scene di combattimento tra Dioniso e gli Indi. I due episodi rappresentati appaiono affollati e frenetici, con i personaggi fermati in pose convulse, uniti in una senso plastico di continuità. 






Fra i pezzi di maggior pregio compaiono numerosi e vari diversi frammenti riconducibili a reperti di uso funerario. L'attenzione rivolta al recupero delle testimonianze antiche, perpetrato dai monaci dell'abbazia durante i secoli, si traduce in un'attenzione sempre viva per il passato e la sua conservazione.









Se nelle prime sale del museo l'attenzione è posta sull'attività di recupero archeologico, nella sala detta "roveriana" il ruolo di protagonista è affidato alle vestigia recuperate dall'assetto medievale della chiesa. Arredi liturgici, elementi decorativi e pittorici occupano questo che è l'ambiente più vasto dell'intero palazzo del Commendatario. Qui il visitatore ha l'opportunità di immaginare l'aspetto della chiesa e dell'abbazia di Grottaferrata a partire dal secolo XII. Interessante dal punto di vista storico è la transenna marmorea traforata secondo un disegno a squame, dove è possibile leggere i nomi dei primi tredici egumeni che guidarono l'abbazia.  Non mancano elementi di carattere decorativo, come i capitelli antropomorfi, un ambone, transenne decorate a bassorilievo, pilastri e un esemplare di hagiasma, il contenitore marmoreo utilizzato, nel rito bizantino, per la conservazione dell'acqua benedetta in occasione della celebrazione del battesimo di Gesù.


Transenna marmorea con decorazione a squame



Hagiasma



Transenna marmorea proveniente dal cimitero dei monaci





Nella parte alta della sala, trovano spazio alcune scene affrescate, rinvenute in occasione dei lavori effettuati nel 1904 per il IX centenario della fondazione dell'abbazia. Le sei scene esposte in questo ambiente appartengono ad un ciclo delle Storie di Mosè, obliterato per anni dal soffitto ligneo della chiesa, realizzato nel 1577. Parte di tale ciclo è ancora  visibile sulle pareti della navata centrale della chiesa di Santa Maria. Sebbene parzialmente danneggiati, gli affreschi permettono di analizzare lo stile pittorico e le caratteristiche degli artisti che lo realizzarono. Attraverso gli episodi della "Disputa con i Maghi", "La piaga del sangue", "La piaga delle mosche", "L'uccisione dei primogeniti", "La piaga della grandine" ed "Il passaggio del Mar Rosso", le opere offrono uno spaccato stilistico degli orientamenti pittorici in ambito laziale tra XII e XIII secolo. Nonostante le lacune, è possibile leggere la vicenda mosaica dove i personaggi sono presentati, di volta in volta, come attori su di un palcoscenico, incorniciati da quinte architettoniche dalle prospettive molto audaci. Una datazione netta per tali opere è purtroppo ardua, in ragione dei rimaneggiamenti subiti dalle stesse a distanza di pochi anni dalla loro prima stesura. Ipotesi diverse si contrappongono nell'indicare le motivazioni dei rimaneggiamenti seguiti a breve distanza, ma per comprendere i complessi interventi realizzati sulla decorazione pittorica della chiesa di Grottaferrata, è necessario tener presente l'attività susseguitasi in epoca medievale in ambito architettonico e strutturale. 





                                                                 

                                                                  







In occasione del sopraggiungere dell'anno giubilare del 1300, la chiesa abbaziale fu oggetto di un rinnovamento che impresse uno stile gotico alla fabbrica, vetrate decorate, l'ambone ed il ciborio di stile cosmatesco entrarono a far parte della decorazione di Grottaferrata. Oggi, quei decori, rimossi dalla navata, fanno parte della collezione del museo.




Lasciando gli ambienti dedicati al medioevo, il percorso espositivo prosegue verso le sale che ospitano opere risalenti al periodo dei cardinali commendatari. A partire dal XV secolo iniziò un periodo di declino che investì il monachesimo greco in Italia ed inevitabilmente toccò anche Grottaferrata. Per affrontare questa  circostanza, il pontefice Martino V decise di affidare la guida dell'abbazia criptense ad alti prelati che avrebbero rivestito il ruolo di commendatari. Dal 1428 iniziarono ad alternarsi nella gestione dell'abbazia di Grottaferrata cardinali appartenenti alle più illustri casate nobiliari romane tra cui i Farnese, i Colonna, i Barberini. Se tracciando la storia dell'abbazia ci è capitato di far riferimento al rivoluzionario intervento architettonico-militare promosso dal cardinale commendatario Giuliano della Rovere, l'operato di alcuni dei suoi successori contribuì a lasciare pregevoli tracce di committenza artistica tutt'oggi superstiti. L'ambiente, dedicato alle opere commissionate dai cardinali commendatari,  offre alcuni esemplari di discreto interesse artistico. Su committenza del Cardinale Giuliano della Rovere giungeva a Grottaferrata una statua della Madonna con il Bambino, realizzata in pietra arenaria e riconosciuta come opera di scuola francese databile al XV sec. La Vergine, il volto da adolescente, tiene fra le braccia, senza sforzo, un gioioso Bambino proteso verso il fedele a cui porge un melograno, frutto dal significato simbolico che richiama alla Passione di Cristo.




Il tema cristologico è ripreso nella lastra marmorea con al centro il Cristo dolente. Datata alla fine del XV sec. il bassorilievo - diviso in cinque pannelli- incorniciato da una modanatura continua con cornice ad ovuli e fogliette di acanto stilizzate, ritrae al centro, il Cristo con ai lati  angeli deferenti, mentre nei pannelli esterni trova spazio il racconto del martirio di san Sebastiano e l'immagine di san Rocco nell'atto di mostrare le piaghe. A partire dal 1503, la commenda fu nelle mani della famiglia Colonna, durante il cui dominio la sala fu oggetto di una campagna decorativa che portò alla realizzazione di affreschi celebrativi sulle volte e sulle pareti, per mano del pittore Francesco da Siena. La decorazione, realizzata secondo lo schema a grottesche, celebra le storie del comandante e console romano Fabio Massimo, ritratto in otto episodi principali della sua vita, mentre il riquadro centrale della volta raffigura una scena mitologica. 












Terminando la visita al museo non si può ignorare l'originario portale in marmo che custodiva l'ingresso al nartece fino ai primi anni del XX secolo. Esempio di reimpiego di materiali antichi, il portale è frutto dell'unione di due cornici marmoree decorate ad ovuli dentellati e sormontato da un frammento di sarcofago, al cui centro campeggia, a bassorilievo, l'immagine di una giovenca in atto di allattare i suoi piccoli, figura adottata a simbolo dell'abbazia di Grottaferrata. Uscendo nel cortile del palazzo del commendatario, lapidi ed altri resti marmorei celebrano il già citato interesse per il recupero archeologico praticato dai monaci di san Nilo, un impegno che ha contribuito a connotare intensamente l'identità di questo luogo e della sua comunità. 





Il nostro viaggio si ferma qui. Fra queste righe si è cercato di far sorgere nel lettore una certa curiosità per questo luogo e deliberatamente si sono omesse opere e fatti degni di interesse, per lasciare al viaggiatore il gusto di scoprire di persona tanto altro ancora...



INFORMAZIONI

L'Abbazia di Grottaferrata si trova nell'omonimo comune di Grottaferrata in provincia di Roma. 

Corso del Popolo 128, Grottaferrata, Roma.


BIBLIOGRAFIA

Ambrogi A. "L'Abbazia di San Nilo a Grottaferrata. Il complesso monumentale e la raccolta archeologica". Roma, 2013.

Andaloro M. "La decorazione pittorica medievale di Grottaferrata e il suo perduto contesto" in "Roma anno 1300. Atti della IV settimana di Studi di storia dell'arte medievaledell'università di Roma "La Sapienza", 19-24 Maggio 1980." Roma, 1983.

Caciorgna M.T. (a cura di) "Santa Maria di Grottaferrata e il cardinale Bessarione. Fonti e studi sulla prima commenda

Fabjan B.-Ghini G. "Il museo dell'Abbazia di Grottaferrata". Roma, 2012.

Ghisellini E. " La stele funeraria greca del Museo dell'Abbazia di Grottaferrata" in "Bollettino d'arte" anno XCII serie VI- 139 Gennaio-Marzo 2007.

Matthiae G. "Gli affreschi di Grottaferrata e un'ipotesi cavalliniana", Roma, 1970.

Pace V. "La chiesa abbaziale di Grottaferrata e la sua decorazione nel Medioevo." in "Bollettino della Badia di Grottaferrata" vol. XLI- 1987- Gennaio-Dicembre.

Parlato E. "L'abbazia nel Medioevo" in "San Nilo. Il monastero italo-bizantino di Grottaferrata. 1004-2004. Mille anni di storia, spiritualità e cultura". Roma, 2005.

Tomassetti G. "Della campagna romana antica, medievale e moderna, IV. Via Latina." Firenze, 1979. 

Zander G. "La chiesa medievale della Badia di Grottaferrata e la sua trasformazione nel 1754" in "Palladio" 2-3 (1953).

domenica 18 luglio 2021

Il Castello delle Querce di Fondi

 




   Girovagando fra i Monti Aurunci, oltre ad avere la possibilità di fare escursioni fra uliveti digradanti e godere una solitudine immersi nella natura, a volte capita di imbattersi in qualcosa che solletica la curiosità dell'escursionista o del semplice turista. Circondato dalla cornice dei monti Valletonda e Passignano, il castello delle Querce costeggia il tratto stradale che dalla cittadina di Fondi (Lt) sale verso le cime. 
Sebbene la sua struttura versi in stato di rovina, è innegabile che dalle sue torri propaghi un fascino attrattivo che impedisce al passante di proseguire oltre il suo cammino, senza avergli dedicato un po' del suo tempo.

Non sono molti i dati certi a cui è possibile fare riferimento per ricostruire la storia di questo sito, ma pare che i primi riferimenti siano databili all'anno 1072, tempo in cui Litfredo, console di Fondi, donò quest'area all'abbazia di Montecassino. La posizione tra l'area montana e la strada che conduce alla piana fondana, e quindi verso il mare, tenderebbe a fare ipotizzare ad una prima edificazione di un presidio a scopo difensivo e di controllo che risalirebbe almeno al XIV sec. Gli anni dell'edificazione sarebbero quindi da porsi nel periodo storico in cui il territorio rientrava fra i possedimenti della famiglia Caetani, che lasciò traccia di sè nella vita artistica di Fondi. 
Nei secoli successivi alla sua fondazione, il castello abbandonò gradualmente la sua funzione di presidio di sorveglianza per assumere una funzione abitativa, che indubbiamente comportò revisioni e cambiamenti nella sua struttura.






Attualmente, il castello presenta un impianto composto da un corpo centrale a pianta quadrata con torri cilindriche angolari, che dovrebbero plausibilmente rappresentare -fatti salvi i rimaneggiamenti susseguitisi durante i secoli- la fondazione originaria dell' edificio. A tale corpo principale vanno ad aggiungersi ambienti ulteriori, edificati nell'area posteriore del castello.
Articolato in tre piani, l'interno della struttura appare purtroppo compromesso dal crollo parziale del tetto e di alcune sezioni di solaio che non permettono un accesso in sicurezza. 
Come ogni castello che si rispetti anche sulla rocca delle Querce aleggiano storie e leggende. 
Tra queste si raccontava che Giulia Gonzaga (1513-1566), raffinata signora di Fondi e dama la cui memoria riecheggia tutt'oggi fra le sale del castello baronale (https://ilcappellobohemien.blogspot.com/2017/07/il-palazzo-caetani-di-fondi-la-vivacita_31.html), scegliesse le stanze del castello delle Querce per gli incontri romantici con il suo amante, lontano da occhi indiscreti.






Oggi il castello rientra sotto l'egida della Regione Lazio e sebbene versi in uno stato di totale abbandono, possiamo sempre sperare che prima o poi possa ritornare a vivere come testimone della sua storia e di questi luoghi.

domenica 28 febbraio 2021

La Castelluccia: lo svago del giovane Ferdinando IV alla Reggia di Caserta.

 


 



   Era il mese di aprile dell'anno 1734 ed un giovane Carlo di Borbone entrava in Campania con le sue truppe per liberare il Regno di Napoli dal malgoverno austriaco. Nonostante il Viceré di Napoli, Giulio Borromeo Visconti, tentasse di opporsi all'arrivo del giovane Borbone, nulla riuscì a fermare l'avanzata dello spagnolo che il 10 maggio dello stesso anno fece il suo ingresso a Napoli fra la soddisfazione dei napoletani. 

L'arrivo di Carlo di Borbone non fu un semplice avvicendarsi di casata alla guida del Regno di Napoli, ma sancì l'inizio di una fase di ricostruzione di un regno indipendente nelle aree meridionali  palesandosi, ben presto, come l'inizio di un nuovo periodo per il reame, non solo dal punto di vista politico ed amministrativo. Una fase che lasciò di sé tracce tangibili particolarmente in ambito architettonico, basti pensare agli interventi effettuati sul Palazzo Reale di Napoli, l'avvio della fabbrica della Reggia di Capodimonte ( che verrà destinata ad ospitare la cospicua collezione Farnese, eredità materna del sovrano), la Reggia di Portici, la Real Delizia di Carditello (https://ilcappellobohemien.blogspot.com/2018/01/il-sito-reale-di-carditello-la-delizia.html) ma la cui massima espressione resta, senza ombra di dubbio, l'edificazione  della grandiosa Reggia di Caserta, emblema di un sovrano e di un'epoca. 
La politica residenziale attuata dal sovrano va strutturandosi sull'esplicito progetto di porre Napoli sullo stesso piano delle principali città europee e poter gareggiare con queste ultime per sfarzo e ricercatezza.
Nello scegliere Caserta come luogo per l'edificazione del nuovo complesso residenziale regio, pesarono senz'altro la distanza dalla capitale e la possibilità per il sovrano di allontanarsi momentaneamente dal caos di Napoli, assicurandosi la possibilità di immergersi in svaghi e cacce. Ma a tutto ciò  si aggiungeva un aspetto pratico di non minore peso, ovvero l'opportunità di assicurarsi un vasto territorio acquistabile ad un prezzo non troppo elevato. 
Fino all'arrivo della corte Borbonica, Caserta era stata feudo della famiglia Acquaviva, i cui membri furono elevati al rango di principi nel 1579, sotto il regno di Filippo II. Personaggio di spicco della casata fu Andrea Matteo d'Acquaviva (1594-1634), succeduto al padre Giulio Antonio nel 1594. Uomo d'arme, legato alla corte spagnola ma con salde relazioni presso alcune corti Europee, Andrea Matteo contribuì a trasformare il suo feudo casertano, fino ad allora area a prevalente attività agricola, in una piccola corte vivace e raffinata. 
Il palazzo degli Acquaviva sorgeva nell'area compresa in quello che è attualmente denominato "Bosco Vecchio". Nell'intento di realizzare una dimora che potesse risultare all'altezza della sua posizione sociale, Andrea Matteo ingaggiò l'architetto Giovanni Antonio Dosio (1533-1611), affermato professionista già molto attivo nella città di Napoli. 
Al Dosio venne affidato non solo il compito di ampliare e riadattare il già esistente Palazzo Acquaviva, ma inoltre, di curare la realizzazione di edifici ex novo. Sotto la commissione dell'Acquaviva, l'architetto ebbe modo di costruire il Palazzo di San Leucio, il Palazzo al Boschetto e la cosiddetta Pernesta. 




Quest'ultimo edificio, nelle intenzioni del committente, avrebbe dovuto rappresentare un galante omaggio alla sua seconda moglie, Francesca Pernestein - figlia del Gran Cancelliere di Boemia Vratislav von Pernestein (1530-1582)-  sposata nel 1609 per procura. L'opera, che il principe fece realizzare in onore della consorte, pare tragga inspirazione dal Casino Pernestano a Castiglion delle Stiviere, fatto erigere da Francesco Gonzaga per la moglie Bibiana Pernestein, sorella di Francesca. 
Qualche anno dopo la celebrazione delle nozze venne finalmente inaugurata la torre Pernesta. L'edificio si presentava a pianta ottagonale, articolato su tre livelli, circondato dalle acque ed immerso in un fitto boschetto: fra alberi di agrumi, statue dal significato alchemico e fontane, la torre ottagonale, circondata da un fossato e posta, originariamente, al centro di una convergenza di viali alberati, doveva apparire come un piccolo ritrovo dove era possibile estraniarsi dal mondo circostante.




Alla morte di Andrea Matteo Acquaviva il feudo del principe passò in eredità all' unica erede legittima, sua figlia Anna, sposa di Francesco Caetani, rampollo dei duchi di Sermoneta. Se il matrimonio apparve prestigioso dal punto di vista nobiliare, meno fortunata fu la situazione economica dei due coniugi che negli anni affrontarono diverse difficoltà finanziarie, frutto altresì delle precedenti gestioni del patrimonio, assottigliatosi nel tempo per far fronte anche alle molteplici commissioni artistiche sostenute dal principe Andrea Matteo. In questo clima  maturerà, anni dopo, la vendita dei possedimenti casertani degli Acquaviva-Caetani, che nel 1750, grazie alla mediazione del marchese di San Nicandro verranno acquistati ad un prezzo vantaggioso dal sovrano. 




Ansioso di dar forma al progetto di una maestosa reggia a Caserta, Carlo di Borbone chiamò da Roma Luigi Vanvitelli, che il 28 ottobre 1751 lasciava la Città Eterna alla volta del Regno di Napoli. Il Vanvitelli si assumeva la responsabilità di dar forma alle aspettative del sovrano, avviando un progetto grandioso, in grado di trasmettere ai contemporanei (ed ai posteri) l'articolato programma di un sovrano.




A Caserta, si avviava un cantiere di enormi proporzioni per la realizzazione di una Reggia immersa in un parco: ciononostante, nel progetto convogliarono anche il riadattamento di alcune proprietà precedentemente appartenute agli Acquaviva, come fu appunto il caso della Torre Pernesta. Nel 1768 vennero avviati gli interventi di riassetto dell'area del Bosco Vecchio che previdero non solo la trasformazione della flora e degli arredi scultorei ma inclusero principalmente interventi sulla struttura della torre e l'ampliamento della precedente peschiera poco distante. Nel 1769 iniziarono i lavori di restauro della Pernesta, guidati dall'architetto Francesco Collecini, stretto collaboratore del Vanvitelli. Il recupero di quest'edificio era finalizzato alla creazione di un'area di svago per  il giovane Ferdinando IV, che in questo spazio doveva trovare il suo divertimento nella simulazione di azioni di battaglia. Il muro di cinta, le piccole torrette, il fossato circostante dovevano ricreare, in dimensioni ridotte ed in maniera immaginosa, un piccolo maniero posto su un isolotto, dove svolgere attività ludiche. Collecini mantenne la pianta ottagonale ereditata dal precedente edificio e la preesistente scala a chiocciola che collegava i diversi piani. L'atrio ad arcate riprende una corrispondenza ritmica con le finestre dell'ambiente del primo piano che a sua volta è sormontato da una torretta, a pianta circolare, posta all'ultimo livello. La torre era circondata inoltre da un fossato e vi si poteva accedere solo attraversando un ponte levatoio. 



Con l'aprirsi dell' Età della Restaurazione, a chiusura della fase del regno di Gioacchino Murat ed il ritorno dei Borbone nel Regno, la Castelluccia del giovane Ferdinando IV subì nuove trasformazioni, perdendo l'aspetto di piccola fortezza a favore di uno stile e di una finalità più confacenti ai gusti del nuovo secolo. Nel 1818 l'architetto Antonio De Simone veniva incaricato del nuovo restyling, che sebbene non investisse le componenti strutturali dell'edificio, contribuiva a modificarne l'aspetto nelle decorazioni e nelle rifiniture nonché all'inserimento di piccole componenti aggiuntive. Mutava così la decorazione interna dell'edificio a cui si accompagnava l'introduzione di alcuni elementi ornamentali posti all'esterno, come il piccolo ombrello in latta, dal sapore orientaleggiante,  su uno degli angoli del muro di cinta, trasformato così in punto di sosta per il re e la sua corte. Con il passare del tempo questo luogo perse d'attrattiva, cadendo in uno stato di quasi abbandono per le varie vicende storiche ed amministrative che investirono l'area casertana e gli edifici della Reggia. 
Negli ultimi anni, l'attenzione alla gestione e al recupero di tali edifici ne sta permettendo un graduale rilancio e, si spera, una totale fruibilità degli stessi da parte della collettività.




Sebbene gli ambienti interni della torre della Castelluccia non siano ancora visitabili, questo luogo merita comunque l'attenzione del visitatore, che dopo aver percorso i viali, scoprendone le statue che compaiono fra la vegetazione lungo il cammino, giunge finalmente in questo sito potendone assaporare la storia.







BIBLIOGRAFIA

Barletti E. (a cura di)- Giovan Antonio Dosio da San Gimignano architetto e scultor fiorentino tra Roma, Firenze e Napoli- Firenze, 2011.
Bagordo G.M.- Le architetture per l'acqua nel parco di Caserta- Roma, 2009.
Capano F.- Caserta. La città dei Borbone oltre la reggia (1750-1860)- Napoli, 2011.
De Seta C.- Luigi Vanvitelli- Napoli, 1998.
Iacono M.R.- I giardini della Castelluccia , dagli Acquaviva ai Borbone (1635-1823) in "Siti reali e territorio, Quaderni della Soprintendenza BAPSAE di Caserta e Benevento, n. 0 (Febbraio 2012), pp. 59-71.
Noto M.A.- Dal Principe al Re. Lo "stato" di Caserta da feudo a Villa Reale (secc. XVI-XVIII)- Roma, 2012.


sabato 20 giugno 2020

Raffaello 1520-1483. La mostra ritrovata alle Scuderie del Quirinale



                         



"O felice e beata anima, da che ogn'uomo volentieri ragiona di te 
e celebra i gesti tuoi et ammira ogni tuo disegno lasciato."
                                                                               Giorgio Vasari


    Il 5 marzo 2020 le Scuderie del Quirinale aprivano le porte al pubblico, per la mostra dedicata a Raffaello Sanzio "RAFFAELLO 1520-1483". Progettato con lo scopo di riservare un adeguato spazio all'artista urbinate, in occasione del cinquecentesimo anniversario della sua morte -avvenuta a Roma il 6 aprile del 1520- l'evento avrebbe dovuto accogliere i visitatori fino al 2 giugno 2020, ma la chiusura delle strutture museali, a causa della diffusione del Covid-19, ha di fatto fermato la mostra, cristallizzandola in una situazione di incertezza circa una sua possibile riapertura.
Dopo tre mesi di attesa, con la graduale riapertura delle attività accessibili al pubblico, il 2 giugno la mostra ha riaperto i battenti, accogliendo i visitatori secondo nuove modalità, adeguate al periodo.
Scegliere di visitare la mostra delle Scuderie del Quirinale in questo periodo, significa vivere un'esperienza diversa da quella a cui finora la maggioranza di frequentatori di musei ed eventi culturali erano abituati: gli ingressi contingentati che prevedono l'accesso di piccoli gruppi composti da sei persone e la permanenza in ogni sala per un tempo di soli cinque minuti, possono apparire regole pressanti, ma considerando la natura dell'allestimento creato per ospitare le opere di Raffaello, si comprenderà che è possibile godere di una visita piacevole nonostante le restrizioni.





A differenza di precedenti allestimenti, che prevedevano l'uso di sale più vaste, il percorso della mostra su Raffaello si snoda attraverso 10 sale che contengono un numero ridotto di opere.
Il titolo scelto per l'evento "RAFFAELLO 1520-1483" racchiude in sé la chiave di lettura dell'evento: le opere si snodano, infatti, come un racconto fatto a ritroso nel tempo, partendo proprio da quel 6 aprile del 1520 che vide spegnersi, a soli 37 anni, uno dei più significativi artisti italiani. 
Tre opere aprono il percorso di visita, introducendo il visitatore nella storia degli ultimi atti della vita di Raffaello. La tela di Pierre-Nolasque Bergeret, che nel 1808 si ispirò ai racconti dell'ultimo istante di vita del pittore, al cui capezzale, come ricordò Giorgio Vasari, venne posta una delle opere più significative dell'artista: la Trasfigurazione, conservata presso i musei Vaticani.
Alla scena della morte segue quella dei "Funerali di Raffaello" che Pietro Vanni dipinse tra il 1896 ed il 1900: una scena corale ricorda la gran partecipazione della città che si affollò per rendere l'estremo saluto all'urbinate. Ultima segue la riproduzione del monumento funebre che l'artista volle posto nella chiesa romana di Santa Maria della Rotonda.





 
L'esposizione dedicata all'arte di Raffaello si apre con una delle ultime opere realizzate dall'artista, la tela dell'Autoritratto con amico (1518-1519), disposto accanto a reperti archeologici di epoca romana che hanno lo scopo di sottolineare l'interesse, mai sopito, del maestro verso le antichità che tanto peso ebbero nella sua formazione.



Attraverso le sale viene ricostruito, a ritroso, il percorso formativo dell'artista, che a giusta ragione, Vasari indicò come colui a cui il cielo aveva concesso di accumulare "...infinite ricchezze e tutte le grazie". Fra le sue opere non compaiono esclusivamente le tele più famose ma anche studi, progetti architettonici e tutto quello che contribuì a rendere Raffaello un artista completo.


Veduta prospettica del pronao del Pantheon

Veduta all'interno del Pantheon

Testa di fanciulla


Un posto d'eccezione è indubbiamente riservato alla ritrattistica: i ritratti dei pontefici, dei dignitari, dei  potenti aristocratici, oltre a restituire l'abilità tecnica del pittore, raccontano tacitamente il percorso  che portò l'artista a confrontarsi con questi personaggi, che affidarono a quest'uomo il compito di tramandare la loro immagine ai posteri. Pose carismatiche e gioielli preziosi avevano il compito di trasmettere la misura dell'autorità dei committenti, peso che doveva apparire indiscutibile anche attraverso l'indagine psicologica che Raffaello conduceva sui propri modelli, restituendo, attraverso una posa o uno sguardo, la personalità del soggetto.





Ritratto di Baldassarre Castiglione


   La mostra dedica particolare attenzione al lavoro di Raffaello durante i papati di Giulio II e Leone X. Questa fase rappresentò la sua piena consacrazione, facendolo accedere di diritto all'Olimpo dei migliori artisti che si contavano in Italia. Se le Stanze decorate per Giulio II al Vaticano costituiscono il sommo esempio di questo periodo, i ritratti dei pontefici, ed in particolar modo di Giulio II rappresentano simboli indiscutibili del legame che l'artista stabilì con la Chiesa di Roma.



Ritratto di Giulio II (part.)

                                                                              
Se nei ritratti maschili Raffaello seppe rendere il peso psicologico dell'individuo, nei ritratti femminili la sua genialità restituisce al pubblico il mistero che le sue donne trasmettevano, mistero che spesso non si limitava al solo atteggiamento enigmatico di uno sguardo ritratto ma si estendeva alla stessa identità reale. In particolar modo nel Ritratto di donna velata, in Ritratto di giovane donna ed in Ritratto di donna nei panni di Venere, l'espressione, la gestualità e le pose catturano lo spettatore in un gioco di seduzione incantevole ed ambiguo, un'ambiguità legata alla storia di queste modelle, tra le quali, seguendo le voci del tempo, doveva comparire la celebre Fornarina, ovvero Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere, amata dal pittore.





Ritratto di giovane donna


Raffaello realizza le sue opere interpretando la poetica di ogni personaggio.  Le Madonne delle tele sacre dipinte lungo il lasso della sua carriera, miti ed eteree, racchiuse in un contesto di cristiana domesticità e distacco dalle passioni umane, restituiscono un immagine muliebre che nulla può infrangere: è l'immagine ideale e trascendentale della donna. Le Muse pagane, testimoni di una cultura antica, riaffiorano nei suoi dipinti, con la propria femminilità indifferente, custode di antichi misteri.


Madonna della Rosa


Madonna del Divino Amore (part.)


Visitazione (part.)


Le ultime sale espongono i capolavori che precedono il periodo di attività romana, opere che hanno contribuito al successo dell'artista richiamando su di sé l'interesse di committenti d'eccellenza. Se già nel contratto per la realizzazione della Pala di San Nicola da Tolentino, datato 10 dicembre 1501, Raffaello veniva indicato con il titolo ufficiale di "magister", gli anni immediatamente seguenti confermarono questa gloria. Le composizioni semplici e calibrate adottate per le sue tele ne fanno un pittore raffinato, dal linguaggio equilibrato ed espressivo.


Ritratto di Valerio Belli

Ritratto di Ragazzo

Madonna d'Alba

Madonna del Granduca


Madonna Tempi






Al termine del percorso non si può che restare entusiasti, non solo per aver avuto la possibilità di confrontare direttamente opere che spesso sono geograficamente lontane fra loro, ma più ancora per aver potuto aver potuto apprezzare la grandezza e la genialità di un artista, che negli anni non è mai venuta meno alle sfide che gli si proponevano. 
L'esposizione si chiude con l'Autoritratto della Galleria degli Uffizi, datato tra il 1506 ed il 1508, come una sorta di rimando al doppio ritratto dipinto fra il 1518-19 che apre il percorso delle opere del Magister. Circa dieci anni in cui si andò condensando una delle carriere artistiche più straordinarie che la storia dell'arte possa narrare...







INFORMAZIONI 
I biglietti per la mostra "Raffaello 1520-1483" possono essere acquistati sul sito delle Scuderie del Quirinale scegliendo giorno della visita e fascia oraria.
Il catalogo della mostra ha un costo di copertina di 46 Euro, acquistabile a 43 Euro presso il book-shop al termine del percorso.


BIBLIOGRAFIA

N. BALDINI (a cura di)- La vita e l'arte. I capolavori- 2003.
C. D'ORAZIO- Il giovane favoloso- 2020.
M. FAIETTI, M. LAFRANCONI, F.P.DI TEODORO, V. FARINELLA- Raffaello 1520-1483- Catalogo della mostra
C.STRINATI- Raffaello- 2016.
G.VASARI- Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti-