domenica 17 dicembre 2017

Il Castello di Santa Severa. Gli affreschi del battistero




  
    Sulla costa a nord di Roma, in una frazione della località balneare di Santa Marinella, sorge il castello di Santa Severa, eretto su parte dell'insediamento dell'antica Pyrgi etrusca. 
Scenografia imponente - e spesso poco valutata- da quanti in estate affollano le spiagge che ne cingono i fianchi, Santa Severa e lo stanziamento di Pyrgi hanno dovuto affrontare, nel corso dei secoli, una serie di problematiche legate spesso ad una carenza di fonti che potessero contribuire a gettare luce sulla fondazione e i suoi sviluppi.
Gli scavi che tra il 2003 ed il 2009 hanno investito l'area, i cui esiti hanno contribuito a sanare alcune lacune sull'etrusca Pyrgi e sulla fortezza, rappresentano una tappa fondamentale - si spera non l'ultima- lungo il percorso verso il completo recupero del sito e della sua storia.
Frequentato fin da epoca preistorica, la località - caratterizzata dalla presenza di un approdo marittimo naturale, protetto dai venti- assunse importanza strategica rilevante almeno dal VII sec. a.C., contestualmente all'affermazione dell'etrusca Caere (antica Cerveteri). Precedenti campagne di scavo misero già in luce la zona sacra del luogo, individuando due templi di cui uno dedicato alla dea Uni-Astarte, divinità fra le principali del pantheon etrusco. In prossimità di tali resti, nel 1964 emersero  tre lamine metalliche recanti il ringraziamento alla dea per il successo riportato dal re Thefarie Velianas.

Lamine di Santa Severa- Museo di Villa Giulia, Roma

Emporio e porto rilevante per i traffici commerciali del Mediterraneo, Pyrgi venne annessa ai domini romani a partire dal III sec. a.C, ed inserita fra i siti costieri d' importanza strategica a presidio e difesa di Roma, pertanto oggetto  di un intervento fortificatorio che la dotò di mura poligonali, ancora oggi osservabili su un lato perimetrale del castello.
Le scoperte archeologiche emerse hanno permesso di avanzare ipotesi su una continuità abitativa del luogo da parte delle comunità locali che tra V e VIII sec. d.C. che sfruttarono le preesistenti strutture romane, innalzando su queste nuovi ambienti, quali la chiesa paleocristiana -edificata sui resti di una villa- sita in prossimità della Torre Saracena e che potrebbe essere stata il primo luogo di culto dedicato alla martire Severa. La giovane Severa, figlia del comandante Massimo -già fautore della conversione al cristianesimo di 124 fra i suoi soldati, -con i quali condivise il supplizio durante i primi anni del IV sec. a.C.- subì il martirio insieme alla madre Seconda ed i fratelli Calendino e Marco e, come riportato dalle fonti, venne sepolta nel medesimo luogo, su cui poi sarebbe sorta la chiesa.
La devozione delle comunità locali nei confronti della giovane, ne rafforzò il culto a tal punto da incrementare le inumazioni intorno al luogo della sepoltura, e concorrendo anche alla variazione toponomastica del sito che dall'antico nome di Pyrgi passò ad essere indicato, appunto, come Santa Severa. La località andò caratterizzandosi, nel corso del medioevo, con l'elevazione del castrum Sanctae Severae, che, a seguito  delle devastazioni apportate dai saraceni alla costa laziale e della spedizione contro Centumcellae nell' 846, entrò a far parte dei domini dei Conti di Galeria. Nel 1068 Gerardo di Galeria fece dono all'abbazia di Farfa del castello con la chiesa e tutte le sue pertinenze. Tale proprietà non restò a lungo fra i possedimenti farfensi poiché già nel 1130 il suo controllo venne trasferito ai monaci benedettini di San Paolo Fuori le Mura a Roma, sotto la cui amministrazione il castello e la comunità furono particolarmente attivi in ambito marittimo. I secoli XIV e XV rappresentano fasi di grandi rivolgimenti per la storia della fortezza, trasferita a diversi proprietari quali i Tiniosi (1251), i Bonaventura (1290), i Di Vico e gli Anguillara (1433), che insorti contro papa Paolo II (1417-1471) nel 1465, persero i loro possedimenti che vennero incamerati dalla Chiesa.
Il successore di Paolo II, Sisto IV della Rovere (1414-1484) donò all'Ospedale di Santo  Spirito il castello di Santa Severa, proprietà detenuta fino al XX sec.
Sotto la guida del Santo Spirito, il castello vide concretizzarsi una lunga serie di interventi di natura strutturale e decorativa che contribuirono a renderlo come oggi si presenta  agli occhi del visitatore:
i soggiorni dei pontefici Paolo V Borghese ed Urbano VIII furono motivo di iniziative di natura decorativa che andarono a sommarsi alla committenza dei castellani.


Torre Saracena

Con l'abbandono ed il conseguente interramento della prima chiesa, dedicata alla martire Severa, il castello si dotò di un nuovo luogo di culto consacrato alla santa, edificato a pochi metri dalla originaria fabbrica. Superata la seconda delle tre cinte murarie del castello, si apre uno spiazzo in cui sorgono due edifici di culto, di cui uno addossato al perimetro delle mura esterne, in prossimità di quella che in passato era una delle porte della fortezza.
La cappella di Santa Severa e Santa Lucia è stata a lungo l'unica parrocchia del castello, fino all'edificazione dell'attuale ed adiacente chiesa di Santa Severa, a partire dal 1594 -per volontà di Agostino Fivizzani- e che contribuì alla trasformazione della prima cappella in battistero.
Il battistero si presenta ad aula unica ed oggi, dopo la riscoperta dei suoi affreschi, riemersi negli anni sessanta del '900, è possibile ammirare le scene superstiti di una decorazione che originariamente ne rivestiva l'intero apparato murario.


Abside del battistero

Abside del battistero (part.)

La decorazione pittorica del battistero si articola in diverse ed indipendenti scene, inquadrate in finte architetture arricchite da lastre marmoree realizzate ad affresco. Nell'abside il registro mediano è occupato dalla Madonna in trono con il Bambino circondata da santi ed angeli su cui un tempo sovrastava l'Agus Dei,  mentre nel registro superiore si conserva, sebbene incompleta, la scena dell'Annunciazione, un tempo completata dall'immagine di Cristo racchiuso nella mandorla; completa il paramento absidale l'intradosso dell'arco, decorato con medaglioni in cui campeggiano i ritratti dei profeti.


Profeta
Ai lati della Vergine sono rispettivamente raffigurate le sante titolari della chiesa: Severa e Lucia. Sulla sinistra è conservata l'immagine più antica di Santa Severa che il complesso possa annoverare: la santa, affiancata da san Sebastiano, è rappresentata nell'atto di presentare a Maria il committente, vestito con l'abito dell'ordine dell'Ospedale di Santo Spirito ed inginocchiato in atto di preghiera verso la Madre di Dio alla quale ha donato il Liber Regulae, posto ai piedi del trono.
Il committente viene identificato con  Gabriele de' Salis, che probabilmente commissionò l'opera a scopo votivo.


Santa Severa e San Sebastiano con il committente

Santa Lucia e San Rocco

Tale ipotesi verrebbe avvalorata dalla scena dipinta sulla parete sinistra della cappella dove, inserita in una finta architettura a pilastri, incombe una nave nera, con la bandiera del Santo Spirito, in balia della tempesta. A bordo sono rappresentati diversi personaggi in preghiera, volti con sguardo atterrito verso i due santi vescovi rappresentati a destra della scena ed in posizione elevata: san Biagio e sant'Ippolito, mentre sulla sinistra san Lorenzo osserva la scena con atteggiamento quasi distaccato.








Impossibile avanzare ipotesi sulla reale storicità dell'evento descritto che potrebbe sia prestarsi ad una interpretazione di tipo letterario, descrivendo cioè un episodio realmente accaduto e che potrebbe configurasi come il motivo fondante per la committenza di tale ciclo pittorico a scopo votivo, oppure potrebbe assumere una valenza puramente simbolica, da intendere nell'ottica della celebrazione del Santo Spirito e delle posizioni di prestigio raggiunte nel contesto della politica papale. 
Osservando le pareti della cappella è possibile rendersi conto che gli affreschi non rappresentano le uniche decorazioni dell'interno, alcuni spazi infatti sono caratterizzati dalla presenza di "graffiti" rappresentati immagini di navi dalla fattura abbastanza ingenua e che probabilmente venivano qui incisi da marinai a seguito di scampati pericoli in mare, come grazia ricevuta.


Incisione di una nave
La decorazione pittorica delle restanti superfici murarie ha purtroppo risentito delle diverse destinazioni d'uso in cui incorse la cappella, adibita sia a luogo di sepoltura sia a fini meno spirituali, quali l'utilizzo come pollaio. La fruizione disparata di cui venne fatta oggetto compromise la decorazione che in parte risulta irrimediabilmente perduta, come dimostra la parete meridionale, sulla quale gli interventi successivi e la creazione di una scala addossata, hanno fatto sì che si tramandasse solo una frazione mutila della Crocefissione in cui sono chiaramente ravvisabili l'immagine della Madonna, la Maddalena, il nimbo di un angelo e parte del corpo di Cristo. 

Crocefissione

Gli affreschi, per stile e realizzazione, attesterebbero la loro esecuzione a cavallo tra la fine del XV e l'inizio del XVI sec., in linea con quanto veniva realizzato nella vicina Roma. L'uso di finte architetture a specchiature marmoree dalle linee classicheggianti ed il falso cortinaggio che delimitano le scene, attestano la piena consapevolezza da parte degli artisti qui operanti degli orientamenti delle botteghe attive presso la corte papale. Considerando poi che il Santo Spirito in quegli anni viveva una piena quanto indiscussa affermazione, in termini amministrativi e politici, è facile supporre che il committente, anch'egli membro dell'ordine, scegliesse di affidare l'incarico della decorazione della piccola chiesa ad artisti non certo inesperti od al primo impiego. Per anni gli studiosi di questo ciclo hanno considerato con interesse un possibile influsso operato dalla bottega di  Antoniazzo Romano, attivo in quegli anni nella capitale, non tralasciando però tangenze con quanto si andava concretizzando nei maggiori centri del Lazio settentrionale. Gli affreschi del battistero di Santa Severa testimoniano l'attenzione che l'Ospedale del Santo Spirito ebbe per le realtà artistiche presenti nei maggiori centri limitrofi, testimoniata dalla scelta di affidarsi a maestranze professioniste per la decorazione della chiesa del castello, a cui veniva assegnato il compito di mantenere viva, nella memoria collettiva locale, il ricordo di Severa e del suo martirio, legandosi indissolubilmente ad essa.



Bibliografia
F.Enei- Santa Severa. Tra leggenda e realtà storica- Santa Severa, 2013.
F.Gentile- Santa Severa martire romana:il culto attraverso i secoli- 1997.
L.Indrio- Gli affreschi della chiesa di S.Severa e S.Lucia nel castello di S.Severa:le problematiche di un ciclo antoniazzesco indedito in Le due Rome del quattrocento. Atti del convegno internazionale di studi- Roma 1996.
G.Sacchi Ladispoto- Il Castello di Santa Severa nel Medioevo in Fatti e figure del Lazio medievale a cura di R.Lefevre Lunario romano 1979.
G. Tosi- Cenni storici sul castello di santa Severa sulla via Aurelia- Roma, 1880.

sabato 4 novembre 2017

Il Mitreo dell' antica Capua. Il tempio di un culto arcano.






"Se il cristianesimo fosse stato fermato alla sua nascita da qualche malattia mortale,
il mondo sarebbe diventato mitraico"

E. Renan


   Chi non conosce la storia di Spartaco, il gladiatore trace che guidò la rivolta degli schiavi contro Roma nel I sec. a.C.? Le sue imprese, narrate da autori come Cicerone e Sallustio, e rese immortali dal film di Stanley Kubrik nel 1960, hanno spesso suscitato l'interesse dei curiosi che però, a volte,  ignorano quali siano stati i luoghi in cui vennero compiute. La rivolta di Spartaco prese il via in una delle cittadine più ricche e fiorenti dell'Impero romano, l'antica Capua, dove sorgeva, e tutt'ora sorge, uno dei più importanti anfiteatri che la romanità potesse annoverare.
L'antica Capua - oggi Santa Maria Capua Vetere- dominava un territorio estremamente ricco, l'ager Campanus, dove si concentrava non solo buona parte della produzione agricola dell'intera penisola ma anche, conseguentemente, un fiorente commercio ed una vivacità sociale e culturale che concorrevano a farne uno dei centri più dinamici della penisola italiana. Frequentata dall'aristocrazia, alti funzionari, militari e commercianti, Capua, rappresentava un luogo in cui venivano a contatto individui dai ruoli e dalle provenienze più eterogenee, favorendo contatti di natura sia economica che culturale. In tale contesto veniva così a crearsi un crocevia di civiltà e costumi diversi che andavano ad inserirsi nel panorama delle tradizioni italiche. Sintomatico di tali scambi ed assimilazioni può essere considerato il culto della Magna Mater alla quale era dedicato un tempio a Capua, nel cosiddetto Fondo Patturelli. Divinità nata dalla sintesi di elementi cultuali italici ed etruschi, con il tempo al suo mito andarono ad aggiungersi tratti di origine greco-orientale, contribuendo all'introduzione di nuovi elementi: le circa 160 statue recuperate dal tempio, rappresentanti matres kourotrophos - donne assise con la prole sulle ginocchia- testimoniano una forte componente matriarcale che rimanda al mondo greco.

L'arcaico culto della Grande Madre, a giudicare dalla copiosità dei materiali inizialmente reperiti nella relativa area cultuale, testimonia una grande partecipazione da parte della popolazione, radicatasi nel tempo, elemento che non ostacolò la diffusione di ulteriori culti provenienti da terre lontane, soprattutto se si considera la tolleranza verso la multi-religiosità garantita nel contesto della società romana prima dell'arrivo del cristianesimo.
Fra questi, oltre all'adorazione di Cibele, Serapide ed Iside, di peculiare fortuna godé il culto di Mitra, divinità di origine iranica, ma presente anche in ambito induista, che ebbe un largo seguito a Roma e nelle principali città dell'Impero a partire dal I sec. d.C. A testimonianza di ciò, basta pensare all'elevato numero di mitrei -stimati approssimativamente tra i mille e i duemila- allestiti a Roma, di cui restano testimonianze nelle aree sottostanti le chiese di San Clemente, Santa Prisca, Santo Stefano Rotondo, ed ancora al Circo Massimo, alle Terme di Caracalla, in prossimità del Palazzo Barberini, oltre naturalmente all'elevata concentrazione di templi mitraici nella vicina Ostia antica.


Mitreo di San Clemente

Secondo la tradizione, Mitra sarebbe nato alla presenza di alcuni pastori nel giorno del 25 dicembre, da una roccia, al sorgere del sole, recando nelle mani una daga ed una fiaccola - in qualità di portatore di luce- con il corpo completamente nudo ma con un berretto frigio a coprirgli il capo, indumento con il quale sarebbe stato sempre rappresentato nelle immagini figurative presenti nei templi a lui dedicati.


Statua di Mitra dal mitreo dei Castra Perigrorum 

Mitra, inteso come divinità impegnata nella lotta contro il male, avrebbe un giorno ricevuto, attraverso un corvo, messaggero del dio del sole, il compito di uccidere un toro -tauroctonia- dal cui sacrificio sarebbe sgorgato copiosamente il sangue dell'animale che avrebbe reso fertile il suolo e prolifica la terra. L'atto, compiuto sotto lo sguardo del dio del sole e della dea della luna, vedeva altre componenti a completare la scena quali Cautes e Cautopates, i due tedofori simbolo del sorgere e del calar del sole, oltre ad alcuni animali - il serpente, il cane, lo scorpione- intenti ad attaccare il toro. L'immolazione rappresentava il cardine del culto mitraico, celebrato con la condivisione di libagioni.


Bassorilievo marmoreo dal mitreo dei Castra Perigrorum

Il culto, aperto ai soli uomini e dai caratteri spiccatamente misterici, si diffuse inizialmente tra le popolazioni delle colonie romane, per poi essere divulgato nelle aree centrali dell'Impero grazie ai legionari, fra i quali era molto diffuso a causa degli ideali che promuoveva. Tra i suoi adepti comparivano dignitari di stato, militari e mercanti, accomunati da principi di lealtà, fratellanza e reciproca assistenza promossi dal culto mitraico. L'adesione al culto prevedeva un percorso spirituale che si snodava attraverso sette livelli di iniziazione - Corvo/Mercurio; Ninfo/Venere; Soldato/Marte; Leone/Giove; Persiano/Luna; Messaggero del Sole/Sole; Padre/Saturno- che prevedevano il superamento di prove da parte del candidato. Identificato come una religione di origine iranica, in realtà nessuna concreta documentazione contribuisce a gettare luce sulle origini del culto e sulla sua effettiva diffusione; la natura misterica delle sue celebrazioni concorre inoltre ad alimentare diverse incognite sulla loro reale prassi ed esecuzione, pertanto tutte le notizie inerenti a tale fenomeno sono tratte dai reperti archeologici superstiti. Tutti i mitrei presentano delle caratteristiche comuni come la scelta di luoghi ipogei,  o semi sotterranei, strutturati in un'aula rettangolare,  soffitto a volta decorato con un cielo stellato, sedili in muratura lungo le pareti del vano, mentre sul fondo si apre l'altare su cui compare il tema della tauroctonia.

Il mitreo dell'antica Capua, posto a circa 4 metri al di sotto del livello stradale, venne scoperto solo nel 1922. L'oblio durato secoli contribuì a farlo giungere fino ai nostri giorni, permettendo di poter studiare uno fra i pochi templi mitraici ad essere completamente decorato ad affresco. L'aula, di ridotte dimensioni, anche in ragione del fatto che si stima ogni mitreo venisse frequentato da un numero di adepti compreso tra 20 e 30 uomini, è dominata dalla scena della tauroctonia, mentre sulle pareti laterali si dispiegavano scene probabilmente riconducibili ai riti di iniziazione oggi purtroppo logore.
La lunetta, corrispondente all'altare, ospita la scena dell'immolazione del toro bianco, ritraendo un giovane Mitra il cui manto rosso, aperto in una forma concava, svela al suo interno una volta stellata con sette stelle. Sul capo indossa il rosso berretto frigio che lo accompagna dalla nascita, mentre con la destra affonda la daga nelle carni dell'animale, provocando un fiotto di sangue, a cui un cane corre ad abbeverarsi, mentre un serpente morde la vittima sacrificale. Lo sguardo di Mitra -sebbene il volto appaia danneggiato- non è rivolto al toro, bensì all'osservatore, quasi a renderlo partecipe dell'atto.
Alla scena, compiuta sulla soglia di una grotta, partecipano come testimoni, sulla sinistra, il dio del sole ed il corvo suo messaggero, ed il tedoforo Cautes, identificato dalla fiaccola tenuta alta, ad indicare la luce diurna. Sulla destra, in posizione speculare ai precedenti personaggi, il volto di una donna, personificazione della dea della luna e sul registro mediano, Cautopates, tedoforo con la fiaccola rivolta verso il basso a simboleggiare il buio della notte. Nel registro inferiore, nei due angoli estremi, completano la scena due volti maturi, a sinistra un uomo barbuto, Oceano, mentre a destra una donna, Tellus, dea della Terra, avvicinabile per molti aspetti alla figura della Grande Madre.
L'intera scena, come del resto i restanti affreschi, si presentano piatti e, naturalmente, ancora legati ad uno stile classico, per il quale le figure, anche se ritratte in atti dinamici, appaiono ancora irrigidite in una forma che rimanda alla plasticità statuaria.

Aula del mitreo di Santa Maria Capua Vetere

Affresco con la tauroctonia


    Il dio del sole con il corvo messaggero


Cautes


Cautopates


Oceano e Tellus

Lungo la parete sinistra del vano è posto un bassorilievo con due figure che sono state identificate con Amore e Psiche. I personaggi, la cui vicenda venne narrata da Apuleio nelle Metamorfosi, in tale contesto assumerebbero il significato simbolico dell'amore come guida lungo il tragitto dell'esistenza ma potrebbero, oltremodo, tracciare un legame con altri culti come quello di Iside, in uno dei cui templi, a Savaria, in Pannonia, compare per l'appunto il medesimo tema.


Bassorilievo con Amore e Psiche

Le pareti laterali, così come la contro-facciata, presentano ulteriori scene pittoriche, di cui però si è resa difficile la lettura a causa dello stato di conservazione dei riquadri: così è possibile leggere solo alcune immagini maschili di cui una -probabilmente lo stesso Mitra a giudicare dall'abbigliamento e dal colore del mantello- posta tra piante di alloro, accanto ad una pira sacerdotale, od ancora una figura femminile posta di spalle a decoro della contro-facciata. Difficile, se non impossibile avanzare una datazione certa per questi affreschi, che probabilmente dovettero essere realizzati intorno alla seconda metà del II sec. d.C.

Mitra accanto ad una pira sacerdotale


Figura femminile nella lunetta di controfacciata


La tauroctonia, intesa come vittoria di Mitra sul toro, veniva probabilmente commemorata in occasione dell'equinozio di primavera, ponendo così due date fondamentali per il mitraismo: il solstizio d'inverno -nascita di Mitra- e la sua affermazione sulle forze materiali corrispondente all'inizio della primavera. L'importanza, non solo simbolica, che il mondo romano tributava agli equinozi ed ai solstizi non era casuale e neppure trascurabile, prova ne è il fatto che lo stesso Cristianesimo, nel periodo della sua affermazione, scegliesse di far coincidere i momenti topici della vita di Cristo proprio in queste due fasi. I riferimenti astronomici presenti nel culto mitraico però andrebbero ben oltre, arrivando persino a tracciare nella scena dell'immolazione del toro bianco una precisa mappa celeste osservabile intorno al 100 a.C.
Nel 1980 lo studioso Micheal Speidel avanzò la tesi per la quale, cedendo ad una lettura astronomica della tauroctonia, l'immagine di Mitra veniva ad essere avvicinata alla costellazione di Orion -il grande cacciatore- anch'egli identificato quale protettore dei militari come lo stesso Mitra, mentre il toro, lo scorpione, il serpente, il leone ed il corvo riconosciuti quali relative costellazioni del firmamento. Le locazioni delle relative immagini simboliche proposte nella tauroctonia, ripetuta diligentemente in ogni rappresentazione, avrebbero pertanto lo scopo di definire l'esatta posizione di tali costellazioni in un preciso momento dell'anno e della storia, come anche ribadito da David  Ulansey. Tenendo conto della precessione degli equinozi -scoperta da Ipparco intorno al 200 a.C.- la tauroctonia rappresenterebbe un periodo in cui la primavera cadeva sotto la costellazione del Toro, circondato dalle costellazioni del Serpente, del Corvo, del Cane e del Calice.

Il mito di Mitra ebbe tale risonanza non solo da essere seguito da imperatori come Diocleziano e Galerio, il quale fece costruire un arco di trionfo dedicato al dio iranico a Saloniki, ma finanche da essere eletto protettore dell'Impero Romano. Ciononostante la sua fu una vita relativamente breve a causa dei divieti e le persecuzioni imposte ai seguaci dei riti misterici, promosse a partire dal 324 da Costantino e successivamente vietate del tutto a partire dal 357 d.C.
In tale contesto giocò un ruolo fondamentale l'affermazione del Cristianesimo, che sebbene condividesse con il culto orientale numerosi principi e prassi, si poneva come una religione di più ampio respiro, anche a causa dell'apertura alle donne. La nascente chiesa attaccò tale culto giustificando le sue analogie con il Cristianesimo come mero inganno del demonio e condannandone riti ed usanze. Il mitraismo resta comunque un episodio interessante nel panorama dello studio delle religioni antiche, sebbene avvolto ancora da mille misteri, che senza dubbio hanno contribuito a preservarne il fascino.





INFORMAZIONI
Il mitreo dell'antica Capua si trova in via Morelli nel comune di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta (Campania, Italia). Per visitarlo è necessario recarsi presso il vicino Museo Archeologico dell'antica Capua sito in via Roberto d'Angiò 48, Santa Maria Capua Vetere ed attendere gli orari di visita al mitreo. In prossimità del Museo è possibile parcheggiare la propria auto nello spiazzo adibito a parcheggio comunale. Il biglietto d'ingresso, che permette anche la visita all'Anfiteatro Campano ed al Museo ha un costo di 2,50 Euro.


Bibliografia
S.Arcella - I misteri del Sole: il culto di Mithra nell'Italia antica- Napoli, 2002.
F. Cumont- Le mysteres de Mithra- Parigi, 1902.
A. Perconte Licatese- Capua Antica- Santa Maria Capua Vetere, 1997.
D. Romagnoli- Il mitraismo in età imperiale- Palermo, 2016.
F. Sirano- Santa Maria Capua Vetere. L'anfiteatro campano, il museo dei gladiatori, il mitreo, il museo archeologico dell'antica Capua- Napoli, 2014.
M. Speidel- Parthia and the mitraism of the roman Army. Secondo Congresso Internazionale di studi mitraici- Teheran, 1975.
D. Ulansey- The origins of the Mithraic Myesteries Cosmology and Salvation in the Ancient World- Oxford, 1989.
M.J. Vermaseren- Mithriaca I. The mithraeum at Santa Maria Capua Vetere- Leiden, 1971.






lunedì 9 ottobre 2017

Castel Pandone. La passione di un uomo d'arme









In mezzo ad un fitto bosco, 
un castello dava rifugio a quanti la notte
aveva sorpreso in viaggio: 
cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti.
Passai per un ponte levatoio sconnesso...

Italo Calvino


   Alle falde del monte Santa Croce, sorge la cittadina di Venafro, crocevia fra le regioni dell'Abruzzo, Lazio, Campania e Puglia. Porta del Molise per chi vi giunge da occidente, questa località ha rivestito sin dalle età remote un'indiscutibile importanza strategica, la cui conquista poteva determinare il controllo su tracciati viari di fondamentale importanza per il dominio sulle aree meridionali.
Sulla parte alta dell'abitato si profila la sagoma del castello Pandone, rocca che domina il centro storico della cittadina molisana. Il castello che è sopravvissuto fino ai nostri giorni rappresenta il frutto di mutamenti e stratificazioni verificatisi durante i secoli, promossi dai diversi signori che ne ebbero il dominio lungo il percorso della sua lunga storia. Se l'acquedotto romano, le domus ed i templi rimandano ai contatti con Roma è con l'affermazione del potere longobardo nell'area che iniziano a tracciarsi i profili della vicenda del castello. La vicinanza di Venafro con il Ducato di Benevento ne determinò l'inserimento nel circuito dei possedimenti longobardi: già nel 667, Romualdo VI, duca di Benevento, riconosceva signore dei territori tra Isernia, Bojano e Sepino, Altzek, dando così luogo ad un iniziale sistema di natura feudale. Intorno al 954, Pandolfo I Capodiferro nominò il conte Paldefrid gastaldo di Venafro, che sotto i suoi successori assurgerà alla dignità di contea. Con l'affermazione del potere longobardo sulle terre del Molise, il territorio di Venafro si trovò a intrattenere rapporti anche con l'abbazia di Montecassino e con la limitrofa abbazia di San Vincenzo al Volturno, centro monastico di grande vivacità artistica durante tutto il periodo longobardo e non solo.
Signore di una terra di notevole importanza amministrativa e militare, Paldefrid avviò la costruzione di un primo impianto fortificato, costituito da un edificio a pianta quadrata nella parte alta dell'abitato, intorno cui andarono poi sviluppandosi strutture accessorie di natura difensiva.
Con l'affermazione del dominio normanno, Venafro andò a comporre con Isernia, Bojano e Campobasso il Comitatus Molisii che venne annesso al Regno di Napoli nel 1143.
Durante la dominazione normanna, il castello di Venafro subì un attacco ad opera del consigliere imperiale Bertoldo di Kunigsberg, legato imperiale di Enrico VI, che il 12 novembre 1192 assaltò e conquistò il castello lasciandolo al saccheggio delle sue truppe. Attaccato ancora il 23 giugno 1201 da Gualtiero di Brienne che pose a ferro e fuoco l'intero abitato, di cui era allora signore Marcovaldo di Annweiler, la conservazione della fortezza fu ancora messa a rischio nell'anno 1222, quando l'imperatore Federico II ne stabiliva la dismissione a favore di altre rocche. Il castello riuscì a sottrarsi alla volontà dell'imperatore ma circa un secolo dopo, nel 1349, un violento sisma ne danneggiò gravemente la struttura, riabilitata successivamente con l'edificazione di tre torri a pianta circolare. 




Nel gioco degli avvicendamenti dinastici, di cui il sud della penisola fu scenario tra XV e XVI sec., si inserisce la famiglia Pandone: Francesco, primo membro a legare il proprio nome a Venafro, inizialmente sostenitore del partito filo-angioino, poi tra le fila aragonesi, ne ricevette il contado, dominio detenuto dal casato fino al 1528.
La figura che però più delle altre ha contribuito a lasciare il tratto indelebile dei Pandone sul castello e su Venafro fu quella di Enrico. Condottiero, uomo di corte, Enrico fu un grande appassionato di cavalli, di cui avviò un allevamento nelle scuderie del Rione Palazzotto da cui uscirono alcuni dei più magnifici esemplari che andarono ad arricchire le scuderie dei nobili napoletani e dell'imperatore Carlo V. Nel 1521 Enrico avviò un'intensa attività di ripristino della struttura fortificata, restaurando completamente la torre medievale, trasformandola nei suoi appartamenti residenziali e disponendo il programma della decorazione pittorica del piano nobile arricchito con i ritratti, a grandezza naturale, dei migliori cavalli dei suoi allevamenti.
L'anonimato avvolge ancora la bottega che venne chiamata a realizzare tale opera, anche se non è improbabile supporre che la sua provenienza vada ricercata nell'ambito degli artisti napoletani.
I pittori che lavorarono fra queste sale eseguirono dei ritratti a grandezza naturale, utilizzando la tecnica dell'affresco steso su uno strato a rilievo -stiacciato- tale da ispirare un senso di tridimensionalità nell'osservatore.
Ogni cavallo è riprodotto secondo le sue caratteristiche peculiari con selle e raffinati finimenti, oltre ad essere accompagnato da una breve descrizione che ricorda l'acquirente a cui venne venduto.
Fra i molti esemplari, il cui ritratto è ancora qui conservato, si ricorda quello destinato all'imperatore Carlo V e quello donato ad Annibale Pignatelli nel 1523.


Loliardo cotugnio favorito che
de questa taglia re
tratto de naturale de quattro in
cinque anni a di XX de
giugno MDXXIIII
Donato alo S Aniballo Pignatello
gentilhomo neapolitano che
lo a portato alla corte
del mese de magio
MDXXIIII



Mandato alo S, Aniballo
Caracciolo gentilhomo
neapolitano del mese
de marzo MDXXIIII
Particolare della sella

La consuetudine di far realizzare tali decorazioni non era priva di precedenti all'epoca di Enrico Pandone: già i Gonzaga, nella propria residenza di Mantova, avevano fatto realizzare una sorta di galleria equina sulle pareti delle sale, al fine non solo di celebrare i propri allevamenti ma anche, indirettamente, quegli ideali cavallereschi e guerrieri che ancora persistevano nella mentalità dell'epoca. A Venafro i ritratti, realizzati su fondo neutro, con un disegno preparatorio realizzato a carboncino, sono volti alla totale celebrazione delle qualità dell'animale, dalla lucidità del suo manto alla vivacità del suo sguardo, il tutto completato da bardature dal gusto estremamente raffinato che rimandano ad un artigianato di settore ricercato ed elegante.
La fortuna di Enrico era destinata a spegnersi di lì a pochi anni:  durante la guerra che vide contrapporsi l'imperatore Carlo V e Francesco I di Francia, il Pandone, da sempre fra le fila del partito imperiale, scese in campo a favore dei francesi in occasione della calata verso il Regno di Napoli di Odet de Foix, visconte di Lautrec, che avrebbe dovuto porre sotto assedio e conquistare la capitale.
Sconfitto l'esercito francese, la sorte di Enrico Pandone subì l'inevitabile precipitare degli eventi e sebbene trovasse rifugio presso il castello di Venafro, qui venne raggiunto dalle truppe imperiali nel 1528 e condotto a Napoli dove fu decapitato dinnanzi Castelnuovo.

Alla morte di Enrico Pandone, il castello di Venafro divenne proprietà di diverse famiglie aristocratiche del meridione quali i Lannoy, i Colonna, i Peretti-Savelli. Durante gli anni che videro avvicendarsi diversi proprietari, il castello andò subendo trasformazioni ed interventi decorativi.
Nella sala grande del piano nobile, dove si conservano ancora tracce dei ritratti equini, i Lannoy fecero realizzare, nella metà del '500, un ciclo di cui restano i due registri: in quello inferiore festoni vegetali sono intervallati da mascheroni e diversi esemplari d'uccelli, mentre in quello superiore si susseguono scene di caccia.














Alle committenze Pandone e Lannoy sono addebitabili le tracce più interessanti dal punto di vista della decorazione conservatasi nel castello di Venafro, a cui, nel corso del settecento, andranno ad aggiungersi gli ornamenti del teatrino e di alcuni ambienti.




Oggi Castel Pandone ospita nelle sale del secondo piano il Museo Nazionale del Molise, dove sono state raccolte testimonianze artistiche non solo locali ma anche opere che dichiarano i rapporti che intercorsero tra il Molise ed il Regno di Napoli.
Molti dei pezzi qui esposti provengono da chiese locali e contribuiscono a tracciare il percorso della storia dell'arte di questa regione: tra gli elementi più antichi compare un affresco proveniente dalla chiesa di San Michele Arcangelo di Roccaravindola, raffigurante San Bartolomeo e San Michele, opera di un anonimo pittore, attivo in Molise intorno alla seconda metà del XIII sec.
Nella medesima sala, spicca per impatto scenico il polittico in alabastro raffigurante la Passione di Cristo, realizzato durante il XV sec. da una bottega di Nottingham e proveniente dalla chiesa della SS. Annunziata di Venafro. Formata da nove formelle superstiti, in sette di queste si ripercorrono i momenti salienti della Passione, articolata in scene drammaticamente affollate, dove l'immagine del Cristo occupa sempre la parte centrale della composizione. Realizzata in ambito inglese, è probabile che il polittico abbia raggiunto Venafro da Napoli, dove vi è conservato un esemplare presso il Museo di Capodimonte.


Affresco. San Bartolomeo e San Michele Arcangelo


Passione di Cristo

Passione di Cristo (part.)
Proseguendo lungo le sale si ha modo di osservare opere realizzate dai più illustri pittori del panorama artistico napoletano quali Andrea Vaccaro, Francesco Solimena, Gioacchino Martorana e Francesco De Rosa, le cui opere, provenienti dal Museo Nazionale di Capodimonte, offrono la possibilità di immergersi nella più alta produzione artistica meridionale del seicento.


Andrea Vaccaro "Santa Cecilia con viola"

Andrea Vaccaro "Santa Cecilia alla spinetta"

Francesco De Rosa "Cristo cade sotto la Croce"

Castel Pandone è quindi oggi un museo nel museo, un opportunità concreta che viene offerta per la rivalutazione di un territorio troppo spesso dimenticato, con una storia che è parte integrante delle vicende e dello sviluppo del meridione d'Italia, non solo in termini amministrativi ma ancor di più culturali...


La cittadina di Venafro vista da Castel Pandone

Informazioni

Venafro è un comune in provincia di Isernia, nella regione del Molise, dista 160 km da Roma e 105 km da Napoli.
Castel Pandone si trova in via delle Tre Cappelle (Venafro) ed è aperto tutti i giorni dalle 09:00 alle 19:00, tranne il lunedì. Il costo del biglietto d'ingresso è di 4 Euro e vi è la possibilità di acquistare un biglietto integrativo che consente l'accesso anche al vicino Museo Archeologico.


Bibliografia
AA.VV.- Ricerche sul patrimonio architettonico in Abruzzo e in Molise: Terre Murate- Roma, 2008.
V. Di Cera, A. Di Niro, I. Marchetta, C. Peretto- Musei in Molise. Museo Sannitico, Palazzo Pistilli, Castello di Capua, Civitacampomarano, Paleolitico Isernia, Archeologico Venafro, Castello Pandone, Abbazia San Vincenzo- 2015.
M. Fratarcangeli (a cura di)- Dal cavallo alle scuderie. Visioni iconografiche e architettoniche- Frascati, 2014.
F. Marazzi- Ultimi longobardi. La contea di Venafro e il suo territorio tra Montecassino, San Vincenzo al Volturno e i normanni (950-1100) in Ricerca come incontro. Archeologi, paleografi e storici per Paolo Delogu a cura di G.Barone, A.Esposito, C. Frova- Roma, 2013.
G. Morra, F. Valente- Il Castello di Venafro: storia, arte, architettura- Campobasso, 2000.
G. Rocco- Castelli e borghi murati della Contea di Molise (sec. X-XIV)- 2009.



martedì 8 agosto 2017

Le Catacombe di San Senatore. I primordi del cristianesimo ad Albano Laziale





"Per eandem vero viam pervenitum ad Albanam civitatem
 et per eandem civitatem ad ecclesiam sancti Senatoris,
 ubi et Perpetua iacet corpore et innumeri sancti; 
et magna mirabilia ibidem gerentur."

dal "De Locis Sancti Martyrum qual sunt foris civitatis Romae"



   Nel cuore dei Castelli Romani, ad Albano Laziale, da più di 1600 anni, il sottosuolo custodisce una delle prime testimonianze della diffusione ed affermazione del cristianesimo in quest'area: le Catacombe ipogee di San Senatore.
L'uso dell'ipogeo da parte delle prime comunità cristiane risalirebbe al IV sec. e s'inserirebbe nella preesistente struttura di una cava di pozzolana, probabilmente già impiegata, a fini cimiteriali, durante la fase insediativa della II Legione Parthica, istituita da Settimio Severo, a cui si deve l'edificazione dei Castra Albana.
Posta al XV miglio della via Appia, al di sotto della chiesa di Santa Maria della Stella, l'area su cui si svilupparono le catacombe ed i lotti sepolcrali prospicienti ad essa- sepolcro Rosatelli e quello di via Pratolungo- testimoniano dell'ampio ricorso d'uso a cui i locali destinarono la zona.

Sebbene manchino dati storici certi che permettano di indicare il sorgere e il proliferare delle prime congregazioni cristiane albanensi, l'edificazione di una basilica intitolata a San Giovanni Battista, voluta dall'imperatore Costantino (306-337), nonché l'inserimento di Albano fra le prime nove sedi vescovili laziali, lascia intendere che già nel IV sec. la comunità locale avesse abbracciato numerosa il culto cristiano.
Le catacombe albanensi, dedicate ai santi martiri Senatore, Secondo, Carpoforo, Vittorino e Severiano- commemorati l'8 agosto- furono, fin dalla loro fondazione, oggetto di profonda venerazione da parte degli abitanti del luogo, nonché di coloro che giungevano qui in pellegrinaggio. Tale devozione si comprende specialmente tenendo conto della densità d'inumazioni concentrate in ambienti dall'estensione non molto vasta ma che denunciano l'importanza per i defunti, ed i loro familiari, di trovare riposo accanto ai resti e alle reliquie di tali martiri: fra le numerose sepolture rinvenute in loco, che coprono un arco temporale compreso tra IV e XII sec., alcune di esse denunciano sovrapposizioni di inumazioni con resti più recenti che occupano lo stesso loculo di quelli più remoti.
I defunti venivano spesso deposti con oggetti quali calici, bottiglie o piccole lampade, ma fra i materiali rinvenuti sicuramente più numerose appaiono le monete bronzee, di cui sono stati ritrovati circa 665 esemplari di cui il più antico celebra i Vicennalia in onore dell'imperatore Massimiano (240-310). Tale prassi, oltre a richiamare l'uso di farsi inumare con monete antiche, legate alla memoria di imperatori del passato, potrebbe ancora denunciare la sopravvivenza di una pratica rituale quale l'usanza pagana di dotare il defunto con monete da destinare a Caronte, traghettatore di anime verso l'aldilà.
I fedeli frequentarono attivamente le catacombe di Albano almeno fino al XII secolo, dopo tale periodo però la memoria del luogo e dei santi che qui si veneravano andò spegnendosi fra gli abitanti, arrivando a perdersi in un totale oblio. Solo nel 1571, padre Ludovico Perez de Castro, individuò la presenza del sito al di sotto della struttura di S. Maria della Stella, esponendo però le tombe a depredazioni di ogni genere. Alla fine dell' 800 il luogo venne studiato dall'archeologo Giovan Battista De Rossi che ne tracciò una prima descrizione.

Le catacombe si articolano in gallerie e cubicoli di diverse dimensioni che penetrano  in profondità al di sotto dell'area occupata dalla chiesa e dall'annesso convento: alcuni ambienti, di maggior estensione, offrono al visitatore lo spettacolo di pareti  affrescate con temi sacri.
Come avveniva per altre catacombe a Roma, le aree,  dove si concentrava la decorazione più ricca, rappresentavano spesso il centro spirituale del luogo, lo spazio deputato ad ospitare le sacre reliquie. Ciò si verifica anche ad Albano, dove, dopo aver disceso i gradini d'accesso, si raggiunge la Cripta Venerata: questo è fra i vani più estesi ed è illuminato da un lucernaio aperto sul soffitto. Sulle sue pareti si conservano i resti di affreschi risalenti a vari periodi. I devoti albanensi ebbero molto a cuore la cura di questo luogo, la cui decorazione venne rinnovata più volte nel corso degli anni, come dimostrato dal ritrovamento di strati pittorici sottostanti quelli superstiti.
La prima scena a colpire l'attenzione del visitatore è una Deesis posta sulla parete concava che sembra assumere quasi i caratteri di un'abside.


Deesis

Al centro della rappresentazione, la figura del Cristo Pantocratore, recante il libro nella sinistra e nell'atto di benedire alla greca con la destra, è circondato dalla Vergine -identificata dalla scritta MITER THEV, Madre di Dio- mentre sulla sinistra compare, in dimensioni notevolmente ridotte, rispetto alle figure precedenti, un giovane monaco tonsurato, recante anch'egli un libro chiuso nella destra. L'iscrizione posta al di sopra del suo capo lo identifica come S. Smaragdo. Nelle rappresentazioni tradizionali della Deesis accanto al Cristo era uso rappresentare San Giovanni Battista, mentre nell'esemplare di Albano viene messa in atto una variazione. Chi era San Smaragdo, che ad Albano riveste tanta importanza da essere rappresentato al fianco di Cristo in sostituzione del Battista? In un primo tempo gli storici lo identificarono con un martire che avrebbe condiviso con Senatore, Secondo, Carpoforo, Vittorino e Severiano il medesimo giorno della commemorazione. In seguito agli studi condotti sull'affresco e sulla sua possibile datazione, posta tra XI e XII secolo, si è giunti a ritenere che Smaragdo possa invece identificarsi con Eufrosina di Alessandria, fanciulla che si finse uomo divenendo monaco per sfuggire ad un matrimonio imposto. Tale affresco potrebbe storicamente inserirsi in quella fase apertasi nel 1073, anno in cui papa Alessandro II (?-1073) nominava vescovo di Albano, il monaco greco Basilio dell'abbazia di San Nilo a Grottaferrata. 
Lo stile dell'affresco non appare molto raffinato e l'artista che lo realizzò dimostrò di compiere sia ingenui errori plastici che d'incorniciatura della scena, ma sebbene l'opera non si qualifichi come frutto di un pittore eccelso, ciò non di meno, ne denuncia la consapevolezza di quanto andava realizzandosi non solo nelle zone limitrofe come Ardea e Tivoli, ma anche della tradizione delle icone cristiane quali il Cristo conservato presso la cripta di Santa Cecilia nelle Catacombe di San Callisto sull'Ardeatina, che sebbene testimoni una mano più sicura e raffinata, potrebbe aver fatto da modello per il decoratore di Albano. I personaggi, realizzati a mezzobusto, appaiono colti nelle loro rigide pose, mentre la resa delle variazioni cromatiche delle vesti e dei volti non traduce tridimensionalità, bensì un senso di rigorosa schematicità.


Madre di Dio

San Smaragdo


Accanto e al di sotto della Deesis si aprono nicchie scavate nel tufo, in cui è possibile ipotizzare un tempo la presenza delle reliquie dei martiri venerati. Anche le pareti che circondavano le nicchie erano rivestite da affreschi, i cui strati profondi hanno messo in luce le teste di due personaggi maschili dotati di aureola ed alcuni elementi vegetali e cerchi stilizzati, oltre al ricorso alla decorazione musiva, già in uso in altri siti come la già citata catacomba di San Callisto.
Le ipotesi sulle possibili identità di questi due santi possono solo basarsi su congetture, mancando totalmente attributi o iscrizioni che possano contribuire a far luce sui loro nomi, la cui prossimità con le nicchie potrebbe solo far ritenere plausibile la rappresentazione di uno dei martiri di San Senatore.


Loculo-reliquiario


Particolare di  strati decorativi

Testa di santo


La parete sinistra della Cripta Venerata è prevalentemente occupata dalla figura del Cristo assiso, circondato da sei personaggi. Tutti i protagonisti della scena  vestono tuniche clavate, mentre nessuno di loro, tranne il Cristo, ha il capo cinto dal nimbo: il loro sguardo è colto in una distaccata fissità che contribuisce ad infondere sacralità alla scena. Anche per le identità dei sei personaggi sono state avanzate diverse ipotesi, tra chi vorrebbe riconoscere nelle quattro figure vestite di bianco i martiri albanensi o quanti identificherebbero i primi due uomini accanto a Cristo come i Santi Pietro e Paolo e nelle due immagini esterne, ammantate di bruno, i committenti. 
L'evidente richiamo classico palesato in questa scena ha fatto propendere per una datazione al V secolo, ponendolo in relazione alla statuaria e alla ritrattistica del tempo.


Cristo circondato da Santi







A destra della cripta si apre una galleria, la cui parete di fondo, circondata da loculi, è occupata da uno strato pittorico che ritrae un giovane Gesù imberbe con tunica e sandali, affiancato da Pietro, Paolo, Lorenzo e, all'estrema sinistra, un santo di cui è andata perduta l'iscrizione recante il nome. L'iconografia della scena si rifà al tema del Cristo-filosofo, dal volto sereno e dalla gestualità espressiva  (sebbene in parte le mani risultino danneggiate, se ne può indovinare la posa). 
I Santi Pietro, Paolo ed il personaggio ignoto sono rivolti verso Cristo, come impegnati in un dialogo scambievole, mentre San Lorenzo, l'unico ad avere un aureola, come il Salvatore, appare rivolto verso l'osservatore, nell'atto di recare la croce ed il libro. Il culto di Lorenzo vide una grande e capillare diffusione a Roma, dove veniva commemorato con grande partecipazione, basti pensare anche solo all'importanza assunta dalla basilica laurenziana al Verano oltre al ricorso alla sua iconografia presente in numerosi siti dell'Urbe, pertanto non sembra inusuale la sua immagine posta in atteggiamento eminente all'interno della scena. Datato intorno al VI sec. l'affresco venne successivamente ricoperto da un ulteriore strato di cui si individuano sporadiche tracce.


Affresco della galleria destra


Santo ignoto e San Paolo


San Pietro e San Lorenzo


Le catacombe conservano ancora ulteriori tracce pittoriche di cui, purtroppo, spesso si conservano solo labili segni di difficile interpretazione, come ad esempio il riquadro individuabile sul pilastro d'angolo posto di fronte all'ingresso. Qui ormai sono visibili solo i resti dell'immagine di una cesta di vimini, due mani e due capi aureolati estremamente compromessi. Proprio lo stato della scena ha dato adito a diverse interpretazioni tra chi vi ha letto una Natività e chi invece una Deposizione, individuando in quella che sembrerebbe, ad un rapido sguardo, una culla piuttosto che  un sarcofago.
Tutte le problematiche analitiche ed i dubbi che ancora avvolgono la decorazione complessiva degli ambienti, le scelte stilistiche, iconografiche, i riferimenti a scambi culturali intercorsi con le aree limitrofe e con Roma, non possono far altro che delineare non solo il vivo interesse e feconda devozione degli abitanti di Albano, ma anche la vivacità culturale dei committenti di queste opere, che sebbene non ricorressero sempre a maestranze di elevata specializzazione, dimostrano di  aver partecipato al fermento culturale dei secoli in cui vissero, nel tentativo di rendere sempre attuali i cicli pittorici di San Senatore e di porre  tutta la dovuta attenzione per un sito dalla spiccata carica spirituale.


Deposizione


La memoria di tale luogo è ormai condivisa da pochi, ma grazie all'impegno del dottor Roberto Libera, direttore del Museo Diocesano di Albano Laziale, sotto la cui egida rientra il sito, si sta cercando di attuare una politica di recupero e diffusione della conoscenza di questo luogo e della sua memoria. A lui va il mio sincero ringraziamento per avermi concesso l'opportunità di approfondire la conoscenza di questa realtà, i cui caratteri, apparentemente locali, tracciano un percorso fondato su un dialogo artistico di più ampio respiro che investe l'ambito paleocristiano e medievale.


Il direttore dottor Roberto Libera



INFORMAZIONI

Le Catacombe di San Senatore si trovano sulla via Appia Antica, in prossimità della chiesa di Santa Maria della Stella.
Sono raggiungibili dalla stazione ferroviaria di Albano Laziale che dista circa un chilometro dal sito.
Le visite sono prenotabili contattando il Museo Diocesano di Albano Laziale:
Palazzo Lercari, 
via Alcide de Gasperi 37. 
Tel. 3339999883- 0693269490. 
Email: info@museodiocesanodialbano.it
http://www.museodiocesanodialbano.it/la_catacomba_di_san_senatore.htm


Ingresso alle catacombe di S.Senatore

Bibliografia

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Fiocchi Nicolai V., Bisconti F., Mazzoleni D.- Le catacombe cristiane di Roma. Origini, sviluppo, apparati decorativi, documentazione epigrafica- Ratisbona, 1998.
Fiocchi Nicolai V.- Scavi nella catacomba di Albano Laziale in "Rivista di Archeologia Cristiana" LXVIII, 1992, pp. 7-140, 1992. 
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Libera R. (a cura di)- Albano Altomedievale. Atti del Convegno sulla storia di Albano dal V secolo d.C. all'anno 1000-Albano Laziale, 2010.
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Martorelli R., Barbini P.M.- Nuove scoperte nella catacomba di S.Senatore ad Albano Laziale in 1983-1993. Dieci anni di archeologia cristiana in Italia. Atti del VII congresso nazionale di archeologia cristiana a cura di Russo E.- Cassino, 2003.
Osburne J.- The Roman Catacombs in the Middle Ages in "Papers of the British School at Rome" LIII, 1985, pp.278-292.
Palombi C.- La catacomba di S. Senatore ad Albano in Le catacombe del Lazio. Ambiente, arte e cultura delle prime comunità cristiane- 2006
Piazza S.- Pittura rupestre medievale. Lazio e Campania settentrionale (secc. VI-XIII)- Ecole Francaise de Rome, 2006.