domenica 7 luglio 2024

Itri: un castello fra mare e monti

 


   




   Numerosi sono gli avvenimenti ed i personaggi che hanno contribuito a fare la storia del castello di Itri. Rocca posta a presidio dell'antica via Appia, tra Fondi e Formia, Itri è stata nei secoli testimone di battaglie, difese ingegnose ed ostinate, amori, intrighi, delitti e storie di briganti, in un atmosfera misteriosa che ancora avvolge i passaggi del borgo, stretti come spire intorno le mura del castello. Secondo alcuni il nome Itri trarrebbe origine dal latino iter (via, cammino), in ragione della sua posizione sulla via Appia, ma non mancano coloro che ne vedono piuttosto un richiamo toponomastico all'orientale dio Mitra, di cui si conserverebbero tracce di un mitreo in località San Giacomo. 

E' presumibile che il castello di Itri sia sorto su un più antico insediamento, ipotesi che porterebbe la sua origine indietro nel tempo, fino alla tarda età repubblicana, periodo a cui risalirebbero testimonianze di mura poligonali poste al di sotto degli edifici del castello di epoca medievale. Storicamente il luogo venne citato per la prima volta in un documento risalente all'anno 914, in cui si menzionava tal Stephanus itranus. Questa informazione porta a supporre l'esistenza di una comunità stabilmente stanziata sul luogo ed individuata da precisi connotati geografici, ma fu solo a partire dal 1054 che Itri venne indicata come castrum, segno questo di un'evoluzione dell'abitato e delle sue strutture insediative e difensive. 





Arroccato su di uno sperone roccioso, il castello di Itri guarda da un lato ai monti Aurunci e dall'altro al mare. La sua posizione sopraelevata, e la relativa prossimità con il ducato di Gaeta, contribuirono a farlo rientrare nel circuito degli otto castra usati a scopo difensivo dagli ìpati. Il viaggiatore che visita oggi il castello di Itri non può che restare colpito dalla mole degli edifici: il suo imponete mastio a pianta quadrata (alto 35 mt.) e la torre pentagonale, con alte scarpate, cingono l'edificio residenziale, restituendo un'immagine di squadrata solidità. Il ritmo lineare della facciata è però alterato dallo scenografico camminamento di ronda cortinato degradante, dotato di merlatura, e culminante nella cilindrica torre del Coccodrillo, scenario, peraltro, di leggendari quanto truci racconti. Questa parte della rocca non presenta similitudini con altri castelli laziali, mentre se ne ritrovano tangenze con il castello di San Michele a Bellinzona, in area ticinese. Torrette merlate inserite nel muro di cinta completano la struttura architettonica difensiva. Le due torri, pentagonale e quadrata, risalenti all'epoca dell'ìpata di Gaeta, Docibile I (867-907), e del conte di Fondi, Marino I ( 956-984), narrano la storia delle prime misure difensive attuate ad Itri in epoca medievale. A queste, solo nel XIII sec., si aggiunse l'ala residenziale e la torre del Coccodrillo, risalente circa al 1234. Pur rappresentando, nel corso dei secoli, un presidio principalmente difensivo, il castello di Itri, entrato a far parte dei possedimenti della famiglia Caetani nell' anno 1299, -grazie al matrimonio di Roffredo III con Giovanna Dell'Aquila la quale portava in dote Itri- rappresentò anche un terreno fertile per promuovere l'arte e la cultura. A partire dal dominio Caetani la storia di Itri si legò a quella della vicina Fondi, condividendone eventi politici in un'esistenza spesso convergente. Della decorazione artistica che dovette arricchire l'ala residenziale del castello restano purtroppo sparute tracce, ravvisabili su una parete della sala maggiore del  piano nobile. Qui si conserva un affresco  della Madonna con Bambino, circondati da due santi, probabilmente riconducibile al XV sec. Ignoto è l'autore, ingaggiato forse per realizzare ex novo la decorazione attualmente visibile, a copertura di un affresco precedente. Lo strato decorativo sottostante è solo intuibile grazie al distaccamento della superfice pittorica superiore avvenuta in alcune sezioni. Oggi la scena è parzialmente obliterata da un arco, risalente al XVII secolo, quando le trasformazioni dell'ambiente originario portarono alla divisione in due vani separati. Le figure dalla Madre con il Bambino, molto guaste, sono incorniciate da un cortinaggio bordato di rosso ed ocra e ornato a decori romboidali. Il santo posto alla destra della Vergine è intuibile da superstiti e sparuti lacerti, mentre sul lato opposto è visibile  un santo vescovo -probabilmente sant'Antonio abate- recante un libro nella sinistra e colto nell'atto di benedire. Il mecenatismo dei Caetani appare maggiormente ravvisabile nelle iniziative promosse e sostenute nelle aree circostanti il castello, come la costruzione della chiesa ed il convento di San Francesco dei Padri Conventuali della Scarpa, fondati da Onorato I Caetani (1406-1523) o nel sostentamento dell'antica chiesa dell' Annunziata. 



Facciata (part.)


Terrazza soprastante l'edificio residenziale


Torre pentagonale


Interno della torre pentagonale



Cortina merlata e torre del Coccodrillo



Durante la sua lunga esistenza, il castello di Itri fronteggiò attacchi e minacce di ogni tipo, dalle discese di popoli stranieri, il pericolo delle scorrerie saracene, le battaglie per le guerre dinastiche ed infine i bombardamenti durante l'ultimo conflitto mondiale. Nel 1345, a seguitò dell'uccisione di Andrea d'Angiò, consorte della regina di Napoli, Giovanna I, il re Luigi d'Ungheria, fratello di Andrea, scendeva in guerra contro la cognata per rivendicare il trono di Napoli. L'anno seguente, il castello di Itri, possedimento dei Caetani, alleati di re Luigi, venne posto sotto assedio dalle truppe napoletane. Il signore del castello, Nicolò Caetani, architettò una strategia difensiva per proteggere il presidio facendo murare tutti i vicoli che portavano alla rocca, tranne uno, ed impiegando nella difesa ogni itrano abile a maneggiar armi. Il 15 settembre 1346, l'esercito napoletano entrò ad Itri, ritenendola sguarnita e non intuendo di essere caduto in un cul-de-sac. Attaccati di sorpresa dagli itrani, i soldati di Giovanna subirono una cocente sconfitta: catturati e  denudati, vennero rilasciati ricoperti da soli cartelli con epiteti insultanti, sfilando fra le risa ed il dileggio degli itrani.


Sala del piano nobile

Affresco del piano nobile


Affresco (part.)


Nell'anno 1503 la rocca fu ancora una volta coinvolta in episodi bellici, causati dalle mire politiche straniere sull'Italia meridionale. In queste terre venne combattuta, infatti, la decisiva battaglia del Garigliano che vide contrapposti l'esercito spagnolo, guidato da Consalvo di Cordoba, e quello francese, capitanato dal duca di Nemours, contrapposti nel tentativo di conquistare del Regno di Napoli, su cui regnava re Federico III d'Aragona. 

Le scorrerie saracene, che da secoli flagellavano tragicamente le coste tirreniche ed i suoi abitanti, connotarono numerosi episodi avventurosi in terra laziale: leggendaria fu la rocambolesca fuga della signora di Fondi, Giulia Gonzaga (1513-1566), costretta a scappare all'avanzare dei pirati sulle sue terre. Vedova del signore di Fondi, Vespasiano Colonna (1485-1528), Giulia era un'avvenente e colta dama, dotata di una bellezza leggendaria e di non comuni doti intellettive; affascinò potenti ed artisti suoi contemporanei divenendo la  musa delle loro opere. La notorietà della nobildonna si diffuse anche oltre suolo italico, giungendo alle orecchie del sultano Solimano (1494-1566) e dell'ammiraglio della sua flotta di corsari, Khair ed Din, meglio noto come il temibile Ariadeno Barbarossa (....-1546). Il Barbarossa, grato della benevolenza dimostratagli dal suo signore, promise di arricchire il suo harem con il più bel fiore che i giardini d'Italia potessero allora annoverare: Giulia Gonzaga. Nell'agosto del 1534, il temibile Barbarossa architettò di abbordare le coste di Sperlonga e da qui puntare sul castello di Fondi, al fine di rapirne la contessa. La giovane, avvisata tempestivamente del pericolo, riuscì a fuggire nottetempo all'assalto e raggiunta dal cardinale Ippolito de' Medici (1511-1535), suo ammiratore, è ipotizzabile trovasse riparo e ristoro presso il castello di Itri. Il Barbarossa non era però uomo noto per accettare di buon grado uno smacco, quindi, rivolta la propria soldataglia verso Itri, pose l'assedio al castello, sicuro di poter riportare una facile vittoria. Ancora una volta la rocca Itrana, con il supporto di circa cinquemila uomini comandati del cardinale Ippolito de' Medici, non solo seppe resistere all'attacco, ma si oppose valorosamente al Barbarossa costringendo lui ed i suoi uomini alla fuga. 

L'amore che la bella Giulia aveva suscitato nel cuore del cardinale Ippolito non era certo affare riservato, e sebbene ufficialmente non corrisposto dalla dama, la natura dei sentimenti nutriti da Ippolito non aveva ostacolato il nascere di un'amicizia fra i due. Dopo un anno dallo sventato rapimento della contessa di Fondi, altri episodi violenti dovevano stravolgere questo luogo ed ancora una volta ne fu protagonista  il cardinale Ippolito de' Medici. Il 10 agosto, 1535 l'alto prelato moriva ad Itri, accudito dalla contessa di Fondi. Nel mese di giugno, il cardinale, in procinto di partire per una missione diplomatica in Tunisia, giunse ad Itri dove poté attendere ai preparativi per la partenza delle sue navi dal porto di Gaeta. Nelle settimane che dovevano precedere il viaggio, Ippolito si dedicò alla caccia nei territori limitrofi ma soprattutto approfittò del tempo a sua disposizione per far visita all' amata nel vicino castello di Fondi. Era un uomo vigoroso il cardinale, potente ma inviso a molti: i suoi nemici mai gli risparmiarono accuse ed invettive. Nei primi giorni di agosto, il de' Medici si ammalò mentre soggiornava presso il convento di San Francesco di Itri. Il suo stato di salute faceva pensare alla malaria, ma quando morì, il 10 agosto, fu subito chiaro che si trattava piuttosto di avvelenamento: il cardinale prima di soccombere accusò il suo servo, Giovan Andrea da Borgo di Sansepolcro di avergli somministrato veleno nella minestra. Dopo l'arresto e la tortura, Giovan Andrea confessò l'assassinio, seppur ritrattando in un secondo momento, e venne rinchiuso a Castel Sant'Angelo, per poi essere accolto a Firenze, fra gli uomini fidati di Alessandro, duca de'Medici. Con la morte del cardinale Ippolito, Itri perdeva un frequentatore illustre che aveva in qualche modo lasciato anche tracce tangibili nel castello. Nella cosiddetta cavea, ai piedi della torre poligonale, si conserva una piccola apertura ricavata nelle mura di cinta verso il quartiere giudeo. Questa porta, si dice, fu voluta dal de' Medici per regolamentare i contatti tra gli abitanti del ghetto ebraico e la comunità castellana: durante il giorno la porta restava aperta per favorire gli scambi commerciali, nelle ore notturne veniva invece chiusa per scoraggiare rapporti promiscui fra i due gruppi.


Cavea e mura con torrette


Portella di comunicazione con il quartiere ebraico


Trovandosi a ridosso della via Appia, in una zona di assidui traffici e che collegava gli stati pontifici con il regno di Napoli, gli abitanti di Itri dovevano inevitabilmente conoscere il fenomeno del banditismo e convivere, in certa misura, con i briganti che infestavano le montagne rendendo pericoloso il viaggio dei viandanti. Sul finire del XVI sec. questi monti erano territorio del brigante abruzzese Marco Sciarra, il "flagellum Dei", come usavano definirlo i suoi contemporanei. Lui ed i suoi briganti terrorizzavano l'Italia centrale, alimentando miti e leggende. Nel 1592, il brigante aveva installato il suo quartier generale nella rocca di Itri, adatta ai suoi scopi per la favorevole posizione strategica. Si narra che tra i viaggiatori intercettati dallo Sciarra capitasse il poeta Torquato Tasso diretto a sud: riconosciuto il letterato, il brigante gli permise di attraversare il territorio in totale sicurezza provvedendo alla sua scorta per un tratto di strada. 


Torre pentagonale (part. merlature aggettanti)


Circa due secoli dopo le avventure di Marco Sciarra, un altro brigante doveva legare il suo nome a quello di Itri: il famigerato Fra Diavolo, Michele Pezza. Nato ad Itri, Pezza fu militare nel reggimento del Regno di Sicilia, ma quando abbandonò il servizio militare si risolse a praticare il brigantaggio. Negli anni di incertezza politica sulle sorti del regno borbonico, fra Diavolo amministrò di fatto il territorio intorno Gaeta, contrapponendosi con i suoi uomini alle truppe francesi. La sua esistenza avventurosa passata tra brigantaggio, riconoscimenti, battaglie e titoli trovò la fine in piazza Mercato a Napoli, dove il Pezza venne impiccato per ordine del governo francese guidato da Giuseppe Bonaparte, indossando la divisa dell'esercito borbonico.


Accesso al camminamento di ronda


Intensamente danneggiato durante i conflitti del periodo pre-napoleonico e successivamente dai bombardamenti che colpirono l'area nel 1944, il castello di Itri ha versato per decenni, insieme al suo borgo medievale, in condizioni di abbandono e rovina. Solo a partire dal 1979, anno in cui l'ultimo proprietario della rocca, Francesco Saverio Ialongo lo donò alla provincia di Latina, si andò progettando un piano di recupero strutturale, partito, in maniera effettiva, solo anni dopo la donazione. Oggi la rocca accoglie il visitatore trascinandolo nella sua storia attraverso torri e camminamenti di ronda, lanciando dalla sua terrazza uno sguardo verso l'Appia ed un altro verso il castello di Gaeta, esattamente come le vedette itrane erano solite fare durante i lunghi secoli passati.




BIBLIOGRAFIA
Touring Club Italiano- Lazio in "L'Italia"- 2005.
BASCAPE' G.- PEROGALLI C.- Castelli del Lazio- Milano, 1968.
CENCIARINI A.C., GIACCAGLIA M.- Rocche e castelli del Lazio- 1982.
GIAMMARIA  G. (a cura di)- Castelli del Lazio Meridionale. Contributi di storia, architettura ed archeologia- 1998.
MOLLO G. - Itri: il castello- in "Rocche e castelli del Lazio. Via Appia e via Aurelia." AA.VV.- Roma, 2006.
NICOSIA A.- Il Lazio meridionale tra antichità e medioevo. Aspetti e problemi.- 1995.
ROSSO G.- Historia delle cose di Napoli sotto l'imperio di Carlo V scritto per modo de Giornali- 1770.
SACCOCCIO A.- Itri nei tempi- 2002.




domenica 10 marzo 2024

Santa Maria della Ferraria. La testimonianza del suo splendore attraverso l'edicola di Malgerio Sorello

 







   La diffusione del monachesimo cistercense nella nostra penisola seguì dinamiche e tempi di sviluppo differenti fra le aree settentrionali e quelle meridionali. A tale disparità concorsero in parte le eterogenee realtà socio-politiche delle regioni peninsulari interessate dal fenomeno. Se lo sviluppo delle abbazie cistercensi al nord dovette inevitabilmente relazionarsi con i poteri locali, per il meridione il confronto doveva avvenire principalmente con i poteri centrali, rappresentati da sovrani regnanti e imperatore. Nel sud Italia i tre cenobi delle Tre Fontane (Roma), Casamari (Veroli) e Fossanova (Priverno) arrivarono a dirigere, in qualità di case-madri, un numero tutt'altro che esiguo di abbazie e competenze sparse nei territori  meridionali: realtà che, sebbene satelliti, seppero a volte ritagliarsi, seppur per brevi lassi di tempo, ruoli piuttosto rilevanti. Testimonianza di tali dinamismi si possono scoprire nella storia dell'abbazia di Santa Maria della Ferraria, nel territorio di Vairano Patenora. 


Il sentiero che conduce all'abbazia


Edificata a partire dall'anno 1171 ai piedi della collina detta "della Verdesca", su di un'area donata dal conte Riccardo di Sangro all'abbazia di Fossanova, Santa Maria della Ferraria vide consacrata la sua chiesa il 23 novembre 1179, sotto la guida del priore Pietro. Probabilmente i lavori del complesso monastico si protrassero oltre tale data, andando ad ampliare negli anni il progetto originario, che la Chronica dell'abbazia narra realizzato dal monaco di Fossanova, Giovanni de Ferraris.

Riconosciutale la dignità di abbazia già nel 1184, Santa Maria della Ferraria s'inserì nel contesto locale come una florida realtà, guadagnando la stima  e la considerazione comune grazie all'accorta politica di alcuni dei suoi abati, abili nell' intessere relazioni fruttuose con la corte normanna ed il papato: relazioni che garantirono al cenobio l'estensione di possedimenti e privilegi paragonabili a quelli goduti da monasteri di maggior rilevanza. Gli anni di dominio normanno furono anni in cui il monastero si vide confermati privilegi, donazioni e potenti protezioni già precedentemente accordate. 

Nell'anno 1201 venne eletto a guida del cenobio l'abate Taddeo, uomo rivelatosi esperto politico e dotato di indiscusse doti diplomatiche. La sua abilità lo condusse a svolgere un ruolo considerevole nei rapporti con l'imperatore Federico II di Svevia, il papato ed il capitolo cistercense. Le visite che Federico II effettuò all'abbazia della Ferraria - l'11 febbraio 1223, in occasione del viaggio intrapreso per incontrare il pontefice Onorio III, e nel 1129, anno in cui, in pieno conflitto con Gregorio IX, si trattenne nel monastero per ben tre giorni- testimoniano il tipo di legame che univa il sovrano al cenobio ed al suo abate. Tuttavia con il trascorre del tempo, passato lo splendore iniziale, l'abbazia iniziò un lento quanto inesorabile declino che la portò alla perdita di quel ruolo ragguardevole rivestito nei primi decenni di esistenza: la condotta discutibile assunta progressivamente dai suoi monaci, gli attriti con la corte angioina e il calo del suo peso politico determinarono la sua esclusione dagli scenari storici più dinamici. 

Trasformata in commenda nell'anno 1461, Santa Maria della Ferraria veniva non solo a perdere definitivamente la propria autonomia, ma poté assistere all'ineluttabile sgretolarsi di una realtà che non avrebbe conosciuto più alcuna ripresa. Se nel 1793 lo stato di commenda terminava a favore del passaggio al Regio Patronato, 14 anni dopo, nel 1807, la vita dell'abbazia giungeva al suo termine con l'abolizione degli istituti monastici, disposta dal governo francese, e che decretò la trasformazione del complesso edilizio religioso, convertendolo in masseria.

Oggi restano scarse testimonianze di quel luogo che ospitò imperatori e dignitari; i ruderi dell'antico complesso monastico, avvolti dalla vegetazione, poco si prestano alla lettura di chi vorrebbe scorgervi la storia passata. Perduto nella quasi totalità l'edificio chiesastico, sopravvive, in stato precario, una piccola cappella laterale, sita al termine di un corridoio gradonato: cappella che nella sua esiguità conserva tuttavia un tesoro inaspettato per il visitatore.




 Al suo interno infatti troviamo un'edicola scavata nella muratura e decorata con un affresco realizzato su due registri sovrapposti. Nella lunetta superiore trova spazio, su campo azzurro, l'immagine della Vergine in veste azzurra e manto rosso e con in braccio il Bambino benedicente. Li circondano i santi Pietro e Paolo, recanti i tradizionali attributi delle chiavi e del libro, contornati da figure di santi, estremamente lacunose, nell'intradosso dell'arco. In particolare, la figura dipinta nell'intradosso, alla sinistra di S. Pietro, la cui identificazione risulta ardua a causa della caduta dell'intonaco nell'area corrispondente al volto, completa la scena contestualizzandola con il gesto di presentare l'anima ignuda del defunto ricordato nel registro inferiore.









La scena della lunetta è separata dall'affresco sottostante da un un'iscrizione in lettere gotiche di colore bianco su banda rossa: il testo ricorda Malgerio Sorel, l'uomo di cui si rappresentano i funerali nel registro inferiore dell'affresco (Hec e(st)mei Malgerii memoria hic traditi vermibus et cineri relictis po(m)ppis secu(li) hoc templum iussi construi Chr(ist)e largitor p(re)mii tue matri virg(i)ni qua(m) mici erede statui cum hoc conve(n)tu nobilis ferrarie cenobii cui(Us) munim(en)volui q(u)(i) s[ib](i) totu(m) p(rae)bui. Mag[n](a)tis nom(en) renui cu(m) veste spero monaci(i) i(n) tuam domu(m) ingredi spes una mu(n)di p(er)diti). Sebbene parzialmente ed irrimediabilmente danneggiata per il distacco di parte dell'intonaco, la scena ripropone il tradizionale momento delle esequie di un devoto in veste candida, steso su di un catafalco e circondato da due schiere di monaci. Fra questi ultimi, alcuni studiosi individuano la figura di Pietro Angelerio da Morrone eletto, nel 1294, al soglio di Pietro con il nome di Celestino V e ricordato da Dante Alighieri come il papa del "gran rifiuto". Ma chi era stato  l'uomo la cui anima nell'iscrizione veniva affidata a Cristo e alla Vergine e la  memoria all'affresco? Malgerio Sorel, conte di Torcino e Sant'Agata, feudatario normanno potente e facoltoso, signore di vasti possedimenti terrieri in Terra di Lavoro, fu falconiere dell'imperatore Federico II di Svevia. Caduto in disgrazia presso il sovrano dopo aver partecipato alla congiura antimperiale di Capaccio (1245-1246), Sorel scelse di terminare i suoi giorni indossando la veste cistercense,  fra le mura  dell'abbazia della Ferraria. Albasia, vedova di Sorel, dispose la donazione di Torcino e Sant'Agata  a favore del cenobio e, sempre per suo volere, qui venne realizzata la cappella in memoria del consorte.






Cercare di immaginare l'abbazia nel suo periodo di splendore non è certo cosa facile, non solo per le numerose trasformazioni d'uso subite nel corso dei secoli, ma anche in ragione dello stato di abbandono in cui versano da lungo tempo i ruderi dell'antico complesso. Aggirandosi tra le rovine di Santa Maria della Ferraria si ha la possibilità di scoprire ancora qualche labile traccia che ha sfidato l'incuria del tempo e l'invasione della vegetazione, restituendo al viaggiatore tenui testimonianze: sparute tracce di affreschi spuntano su lunette di dimenticate cappelle, alcune leggibili ma altre ormai troppo indecifrabili per restituire l'antico tema narrativo; decori architettonici che sfidano i secoli, ormai fragili nella loro emarginazione dalla storia, in attesa di un riscatto di quella che dovrebbe essere una più che giusta attenzione da tributare ad uno dei monumenti storici più significativi e meno noti del casertano. 






INFORMAZIONI

L'Abbazia della Ferraria si trova nel comune di Vairano Patenora in provincia di Caserta. E' raggiungibile percorrendo la SP96- Vairano Patenora (CE).


BIBLIOGRAFIA

CAIAZZA D. "Terra di Lavoro, Terra di Santi. Eremiti e Monachesimo nell'Alta Terra di Lavoro da Benedetto a Celestino V." Raviscanina, 1 luglio 2005.

DI SANO F., BARALDI P., BENSI P. "I dipinti duecenteschi dell'edicola funeraria di Malgerio Sorello nella Abbazia di Santa Maria di Ferraria (Caserta): vicende storiche, tecniche esecutive, conservazione in "Progetto Restauro. Trimestrale per la tutela dei Beni Culturali", anno 11, 39, 2006.

HOUBEN H., VETERE B. "I Cistercensi nel Mezzogiorno medievale", 1994.

LOFFREDO M. "I Cistercensi nel Mezzogiorno medievale (Secoli XII- XV)", Novara, 2022.

NUZZO M. "La memoria di Malgerio Sorello nell'abbazia di Santa Maria della Ferraria. Indagini preliminari su un monumento inedito del Duecento in Campania, in "Arte Medievale", serie II, VII, 2, 1994, pp.77-96.

SCANDONE F. "S. Maria di Ferraria" in “Rivista di Scienze e Lettere”, IX (1908/09).

VITAGLIANO G. "L'abbazia della Ferrara a Vairano Patenora. Alcune considerazioni preliminari sull'evoluzione della chiesa" in "Nella Terra di Fina. Scritti in memoria di Vittorio Ragucci." a cura di A. Panarello  e G. Angelone.  

venerdì 29 aprile 2022

Il Museo dell'Abbazia di Grottaferrata

 





   Tra le varie componenti distintive che caratterizzarono la penisola italiana durante il medioevo, i borghi ed i monasteri rappresentano entità peculiari fortemente qualificanti, sia dal punto di vista economico ed amministrativo, che sociale e culturale. Una grande attenzione è sempre stata dedicata allo sviluppo delle prime comunità monastiche che si insediarono nei diversi territori e che col tempo seppero contraddistinguersi nella gestione territoriale e nello sfruttamento avveduto delle sue risorse. 

Il monachesimo nell'area dei Castelli Romani riporta, inevitabilmente, alla presenza dei monaci greci basiliani, insediati sul territorio di Grottaferrata. Sviluppatasi intorno alla figura carismatica di San Nilo di Rossano, l'Abbazia di Santa Maria sorge su di un territorio di remoti insediamenti di ambito civile e militare. Territorio ricco di sfarzose ville, appartenenti a facoltosi patrizi romani, l'area, compresa tra la via Appia e la via Latina, rappresentava un percorso fondamentale e strategico verso Roma. 

Fra i resti di queste ville, nel 1004 giungeva un monaco calabrese di nome Nilo, allontanatosi dalla sua terra per sfuggire alle violenze delle incursioni saracene. La sua non fu la storia di un uomo comune, quanto piuttosto quella di un individuo dal forte carisma ed assennatezza. Stimato dai potenti locali, ed in particolare da quel Gregorio conte di Tuscolo, ricordato dalle cronache per l'impetuosità del suo carattere, Nilo ricevette in dono da quest'ultimo l'antica villa romana su cui si era insediato con i suoi monaci giungendo a Grottaferrata. Già luogo frequentato per pratiche cultuali cristiane, la Crypta ferrata, primitivo nucleo intorno al quale andrà sviluppandosi il successivo complesso abbaziale, rappresenta il cuore primigenio dell'insediamento nilano a Grottaferrata, sia in termini materiali, ma ancor più spirituali. La crescita della comunità monastica nilana fu il segno tangibile di quell'espansione e del peso sociale e politico guadagnato dall'abbazia nel corso di decenni. Basta tener presente che la consacrazione della chiesa abbaziale, intitolata alla Theotokonos, venne officiata da papa Giovanni XIX già nell'anno 1024, mentre, circa un secolo dopo tale data, papa Callisto II, promulgando un Privilegium, poneva di fatto il cenobio sotto la giurisdizione della Chiesa di Roma. 

La fortuna non arrise sempre ai monaci del monastero. La vicinanza a Roma faceva di Grottaferrata  un inevitabile avamposto strategico per puntare verso la città eterna. Le tensioni fra i potenti locali, le violente scorribande normanne (1163), l'occupazione dell'abbazia da parte delle truppe di Federico II (1241-42) e quella della soldataglia guidata da Ladislao di Durazzo (1411-14) dimostrano quanto vulnerabile fosse il cenobio. Questi episodi contribuirono a caratterizzare l'aspetto architettonico dell'abbazia, che tra il 1485 ed il 1491, assunse le forme di una cittadella fortificata, per volontà del cardinale commendatario Giuliano della Rovere. Mura di cinta e torrette cilindriche racchiusero non solo la chiesa di Santa Maria ma anche il palazzo del Commendatario, residenza voluta dallo stesso Giuliano.






Nelle sale del palazzo del Commendatario trovano oggi spazio sia la biblioteca statale di Grottaferrata, custode di manoscritti ed incunaboli antichi, sia l'area  museale. La raccolta qui conservata nasce dalla lunga attività di recupero di beni archeologici reperiti in situ e perpetrata dai monaci nel corso degli anni. Un primo allestimento espositivo risale al 1873 ed aveva lo scopo di promuovere il patrimonio artistico criptense. Durante i decenni, il museo ha vissuto alterni periodi, in cui fasi di rinascita si alternavano a periodi di incertezza.

L'esposizione museale di Grottaferrata si compone di oggetti che coprono un arco temporale compreso tra l'arte classica romana e greca, fino alle testimonianze delle commissioni artistiche promosse dai cardinali commendatari, che si susseguirono  a guida dell'abbazia fino all'anno 1824.

Le sale dedicate all'arte classica sono il frutto del recupero e della conservazione di quei reperti archeologici che i monaci basiliani rinvennero nel corso dei secoli. Prevalgono fra questi le stele funerarie ed i sarcofagi. Spiccano per importanza e pregio reperti quali la "Stele funeraria con giovane intento nella lettura" e la "Stele con trasporto funebre del guerriero". Il primo bassorilievo, realizzato in marmo bianco di Paros, rappresenta un giovane assiso di profilo, intento nella lettura. Riconosciuta come opera di ambito greco, incerte sono sia la sua datazione che la sua provenienza, mentre incontestabile appare la sua qualità artistica ed il patos narrativo della scena. Forte impatto emotivo è trasmesso dalla seconda stele funeraria con il trasporto del defunto. Stando alle cronache del tempo venne rinvenuta nei territori abbaziali durante il XVII secolo. La scena descrive il trasporto di un defunto fra diversi personaggi. Dibattuta è l'identificazione del tema: alcuni studiosi lo ricondurrebbero al tema epico, riconoscendo nel defunto Ettore oppure Achille, mentre altri vedono nel trapassato l'immagine dell'argonauta Meleagro, principe di Calidone. Contrastanti anche le datazioni dell'opera, collocata da alcuni al I sec. d.C. piuttosto che al II.












Diventati simboli delle collezioni museali dell'abbazia, le due opere spiccano ma non fanno passare in secondo piano altri reperti di interessante fattura. I reperti funerari qui raccolti alternano temi celebrativi ad argomenti mitologici, come nel caso delle lastre di sarcofago con scene di combattimento tra Dioniso e gli Indi. I due episodi rappresentati appaiono affollati e frenetici, con i personaggi fermati in pose convulse, uniti in una senso plastico di continuità. 






Fra i pezzi di maggior pregio compaiono numerosi e vari diversi frammenti riconducibili a reperti di uso funerario. L'attenzione rivolta al recupero delle testimonianze antiche, perpetrato dai monaci dell'abbazia durante i secoli, si traduce in un'attenzione sempre viva per il passato e la sua conservazione.









Se nelle prime sale del museo l'attenzione è posta sull'attività di recupero archeologico, nella sala detta "roveriana" il ruolo di protagonista è affidato alle vestigia recuperate dall'assetto medievale della chiesa. Arredi liturgici, elementi decorativi e pittorici occupano questo che è l'ambiente più vasto dell'intero palazzo del Commendatario. Qui il visitatore ha l'opportunità di immaginare l'aspetto della chiesa e dell'abbazia di Grottaferrata a partire dal secolo XII. Interessante dal punto di vista storico è la transenna marmorea traforata secondo un disegno a squame, dove è possibile leggere i nomi dei primi tredici egumeni che guidarono l'abbazia.  Non mancano elementi di carattere decorativo, come i capitelli antropomorfi, un ambone, transenne decorate a bassorilievo, pilastri e un esemplare di hagiasma, il contenitore marmoreo utilizzato, nel rito bizantino, per la conservazione dell'acqua benedetta in occasione della celebrazione del battesimo di Gesù.


Transenna marmorea con decorazione a squame



Hagiasma



Transenna marmorea proveniente dal cimitero dei monaci





Nella parte alta della sala, trovano spazio alcune scene affrescate, rinvenute in occasione dei lavori effettuati nel 1904 per il IX centenario della fondazione dell'abbazia. Le sei scene esposte in questo ambiente appartengono ad un ciclo delle Storie di Mosè, obliterato per anni dal soffitto ligneo della chiesa, realizzato nel 1577. Parte di tale ciclo è ancora  visibile sulle pareti della navata centrale della chiesa di Santa Maria. Sebbene parzialmente danneggiati, gli affreschi permettono di analizzare lo stile pittorico e le caratteristiche degli artisti che lo realizzarono. Attraverso gli episodi della "Disputa con i Maghi", "La piaga del sangue", "La piaga delle mosche", "L'uccisione dei primogeniti", "La piaga della grandine" ed "Il passaggio del Mar Rosso", le opere offrono uno spaccato stilistico degli orientamenti pittorici in ambito laziale tra XII e XIII secolo. Nonostante le lacune, è possibile leggere la vicenda mosaica dove i personaggi sono presentati, di volta in volta, come attori su di un palcoscenico, incorniciati da quinte architettoniche dalle prospettive molto audaci. Una datazione netta per tali opere è purtroppo ardua, in ragione dei rimaneggiamenti subiti dalle stesse a distanza di pochi anni dalla loro prima stesura. Ipotesi diverse si contrappongono nell'indicare le motivazioni dei rimaneggiamenti seguiti a breve distanza, ma per comprendere i complessi interventi realizzati sulla decorazione pittorica della chiesa di Grottaferrata, è necessario tener presente l'attività susseguitasi in epoca medievale in ambito architettonico e strutturale. 





                                                                 

                                                                  







In occasione del sopraggiungere dell'anno giubilare del 1300, la chiesa abbaziale fu oggetto di un rinnovamento che impresse uno stile gotico alla fabbrica, vetrate decorate, l'ambone ed il ciborio di stile cosmatesco entrarono a far parte della decorazione di Grottaferrata. Oggi, quei decori, rimossi dalla navata, fanno parte della collezione del museo.




Lasciando gli ambienti dedicati al medioevo, il percorso espositivo prosegue verso le sale che ospitano opere risalenti al periodo dei cardinali commendatari. A partire dal XV secolo iniziò un periodo di declino che investì il monachesimo greco in Italia ed inevitabilmente toccò anche Grottaferrata. Per affrontare questa  circostanza, il pontefice Martino V decise di affidare la guida dell'abbazia criptense ad alti prelati che avrebbero rivestito il ruolo di commendatari. Dal 1428 iniziarono ad alternarsi nella gestione dell'abbazia di Grottaferrata cardinali appartenenti alle più illustri casate nobiliari romane tra cui i Farnese, i Colonna, i Barberini. Se tracciando la storia dell'abbazia ci è capitato di far riferimento al rivoluzionario intervento architettonico-militare promosso dal cardinale commendatario Giuliano della Rovere, l'operato di alcuni dei suoi successori contribuì a lasciare pregevoli tracce di committenza artistica tutt'oggi superstiti. L'ambiente, dedicato alle opere commissionate dai cardinali commendatari,  offre alcuni esemplari di discreto interesse artistico. Su committenza del Cardinale Giuliano della Rovere giungeva a Grottaferrata una statua della Madonna con il Bambino, realizzata in pietra arenaria e riconosciuta come opera di scuola francese databile al XV sec. La Vergine, il volto da adolescente, tiene fra le braccia, senza sforzo, un gioioso Bambino proteso verso il fedele a cui porge un melograno, frutto dal significato simbolico che richiama alla Passione di Cristo.




Il tema cristologico è ripreso nella lastra marmorea con al centro il Cristo dolente. Datata alla fine del XV sec. il bassorilievo - diviso in cinque pannelli- incorniciato da una modanatura continua con cornice ad ovuli e fogliette di acanto stilizzate, ritrae al centro, il Cristo con ai lati  angeli deferenti, mentre nei pannelli esterni trova spazio il racconto del martirio di san Sebastiano e l'immagine di san Rocco nell'atto di mostrare le piaghe. A partire dal 1503, la commenda fu nelle mani della famiglia Colonna, durante il cui dominio la sala fu oggetto di una campagna decorativa che portò alla realizzazione di affreschi celebrativi sulle volte e sulle pareti, per mano del pittore Francesco da Siena. La decorazione, realizzata secondo lo schema a grottesche, celebra le storie del comandante e console romano Fabio Massimo, ritratto in otto episodi principali della sua vita, mentre il riquadro centrale della volta raffigura una scena mitologica. 












Terminando la visita al museo non si può ignorare l'originario portale in marmo che custodiva l'ingresso al nartece fino ai primi anni del XX secolo. Esempio di reimpiego di materiali antichi, il portale è frutto dell'unione di due cornici marmoree decorate ad ovuli dentellati e sormontato da un frammento di sarcofago, al cui centro campeggia, a bassorilievo, l'immagine di una giovenca in atto di allattare i suoi piccoli, figura adottata a simbolo dell'abbazia di Grottaferrata. Uscendo nel cortile del palazzo del commendatario, lapidi ed altri resti marmorei celebrano il già citato interesse per il recupero archeologico praticato dai monaci di san Nilo, un impegno che ha contribuito a connotare intensamente l'identità di questo luogo e della sua comunità. 





Il nostro viaggio si ferma qui. Fra queste righe si è cercato di far sorgere nel lettore una certa curiosità per questo luogo e deliberatamente si sono omesse opere e fatti degni di interesse, per lasciare al viaggiatore il gusto di scoprire di persona tanto altro ancora...



INFORMAZIONI

L'Abbazia di Grottaferrata si trova nell'omonimo comune di Grottaferrata in provincia di Roma. 

Corso del Popolo 128, Grottaferrata, Roma.


BIBLIOGRAFIA

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